Il Papa vuole cambiare il “Padre nostro”?
Sembra di sì, e in Francia è già successo, perché dice che il passaggio "non ci indurre in tentazione" è una cattiva traduzione
Durante una trasmissione televisiva papa Francesco ha detto che nella famosa preghiera del “Padre nostro” la frase «non ci indurre in tentazione» non è una buona traduzione, e che anche i francesi di recente hanno cambiato il testo con una formula più corretta e comprensibile. Il Papa ha poi fatto capire che anche i cattolici italiani potrebbero voler modificare il testo della preghiera. Il commento del Papa ha comunque suscitato molte critiche. Philip F. Lawler, direttore di Catholic World News, un sito conservatore, ha detto che la critica del Papa sulla traduzione «non è irragionevole» ma che sarebbe sconvolgente se una preghiera così radicata e conosciuta in questa versione venisse modificata. E ancora: «Papa Francesco ha preso l’abitudine di dire cose che mandano le persone in confusione, e questa è una di quelle».
Lo scorso mercoledì 6 dicembre, nella settima puntata del programma “Padre nostro” condotto da don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, e andata in onda su Tv2000 il Papa ha detto che la frase che lascia pensare che Dio possa indurci in tentazione: «non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non mi lasci cadere nella tentazione”: sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito». E ancora: «Quello che ti induce in tentazione è Satana, quello è l’ufficio di Satana».
Nelle ultime settimane in Francia si è molto discusso di questa storia: domenica 3 dicembre, dopo anni di discussioni, la Conferenza episcopale ha stabilito l’entrata in vigore in tutte le celebrazioni liturgiche della modifica del testo. Al posto di «Et ne nous soumets pas à la tentation» (che corrisponde all’italiano «Non ci indurre in tentazione») si dice ora «Et ne nous laisse pas entrer en tentation» cioè «Non lasciarci entrare nella tentazione».
Il testo in greco della preghiera presente nella Bibbia, nel Vangelo di Matteo 6,13 e in quello di Luca 11,4, dice: «καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν». Le due versioni della preghiera sono diverse nei due vangeli ma quella frase, in greco, è invece identica. Il verbo al centro della controversia è “εἰσενέγκῃς” che letteralmente significa “portare verso/dentro” e quindi effettivamente introdurre/indurre. Sul sito della Conferenza episcopale francese si spiegano le motivazioni della modifica dicendo che «la nuova traduzione scarta l’idea che Dio stesso ci possa sottoporre a una tentazione. Il verbo “lasciar entrare” riprende l’idea o l’immagine del termine greco di un movimento come quello di chi va a combattere, ed è proprio di un combattimento spirituale che si tratta. Ma questa prova della tentazione è terribile per il fedele. Se il Signore stesso, quando arrivò l’ora dell’affronto decisivo con il principe di questo mondo, pregò nel giardino del Getsemani dicendo: “Padre, se possibile allontana da me questo calice”, a maggior ragione il discepolo che non è più grande del suo maestro, domanderà per se stesso e per i fratelli: “Non lasciarci entrare nella tentazione”».
Secondo alcuni esegeti più tradizionalisti, invece, la frase in questione, anche nella sua traduzione letterale, si può intendere in modo positivo. In un altro passo della Bibbia, infatti, si dice già che Dio non tenta nessuno e la parola “tentazione” andrebbe dunque intesa come “prova”: è ovvio che Dio non tenta al male né permette che gli uomini siano tentati oltre le loro forze ed è ovvio che tentare direttamente al male è un mestiere da diavoli. Il “non ci indurre in tentazione” manterrebbe però un altro significato: la categoria di Dio che mette alla prova, cosa che fa più volte nelle storie raccontate nella Bibbia. Secondo alcuni bibisti ed esegeti più disponibili ai cambiamenti, la frase “non ci indurre in tentazione” può essere però fraintesa nel linguaggio corrente.
In Italia la nuova traduzione della Bibbia della CEI del 2008 (risultato di un lavoro cominciato nel 1988, condotto da quindici biblisti coordinati da tre vescovi che sentirono il parere di altri 60 biblisti) prevede alcune differenze rispetto al testo di Matteo e il passo in questione è tradotto con “e non abbandonarci alla tentazione”. Come ha spiegato il cardinale Giuseppe Betori ad Avvenire, «non è la traduzione più letterale, ma quella più vicina al contenuto effettivo della preghiera. In italiano, infatti, il verbo indurre non è l’equivalente del latino inducere o del greco eisferein, ma qualcosa in più. Il nostro verbo è costrittivo, mentre quelli latino e greco hanno soltanto un valore concessivo: in pratica lasciar entrare». La traduzione in italiano, rispetto a quella dei francesi, è poi volutamente più ampia: «”Non abbandonarci alla tentazione” può significare “non abbandonarci, affinché non cadiamo nella tentazione” – dunque come i francesi “non lasciare che entriamo nella tentazione” – ma anche “non abbandonarci alla tentazione quando già siamo nella tentazione”. C’è dunque maggiore ricchezza di significato perché chiediamo a Dio che resti al nostro fianco e ci preservi sia quando stiamo per entrare in tentazione, sia quando vi siamo già dentro».
La liturgia, però, non ha recepito il lavoro del gruppo dei biblisti: la versione della preghiera adottata nella messa è rimasta quella in uso ormai da cinquant’anni. Una volta approvata la nuova traduzione, fu proposto di trasferirla nel Messale, cioè nel libro liturgico che contiene tutte le informazioni necessarie alla celebrazione della messa. Per poter entrare nell’uso liturgico, però, la nuova traduzione deve essere approvata dalla Santa Sede, cosa che non è ancora successa ma che secondo alcuni potrebbe accadere dopo la recente intervista del Papa.