L’inchiesta sulla Russia si avvicina a Trump
Un punto della situazione per chi ha perso il filo: quali conseguenze avranno le notizie più recenti e gli arresti di persone molto vicine alla Casa Bianca
Nelle ultime settimane l’inchiesta del procuratore speciale statunitense Robert Mueller sull’ingerenza della Russia nelle ultime elezioni presidenziali e la presunta collaborazione del comitato Trump con i russi ha ottenuto risultati tangibili e minacciosi per il futuro dell’amministrazione statunitense.
Alla fine di ottobre sono stati incriminati sia l’ex capo del comitato elettorale di Donald Trump, Paul Manafort, sia uno dei suoi consiglieri per la politica estera, che si è già dichiarato colpevole di aver mentito all’FBI e ora sta collaborando con l’indagine. La settimana scorsa, poi, Mueller ha comunicato di aver raggiunto un accordo con un altro importante ex membro dello staff di Trump: Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca, una delle persone più vicine a Trump durante la campagna elettorale, si è detto colpevole di aver mentito all’FBI sui suoi contatti coi russi, e per evitare accuse più gravi – rischiava un processo per alto tradimento – sta collaborando alle indagini. Tutto fa pensare che Mueller e i suoi collaboratori si stiano progressivamente avvicinando a Trump stesso e al suo circolo più ristretto, composto dai suoi figli, dal genero Jared Kushner e dall’ex stratega Steve Bannon.
Il sospetto di molti analisti e critici dell’amministrazione Trump è che il suo comitato elettorale si sia accordato con il governo russo per ricevere sostegno durante la campagna elettorale, in cambio della promessa di relazioni diplomatiche più distese fra i due paesi. Nei mesi scorsi i giornali americani hanno scoperto un mucchio di cose molto difficili da spiegare per Trump e i suoi collaboratori: per esempio che il 9 giugno 2016 i più alti dirigenti del comitato Trump incontrarono rappresentanti del governo russo allo scopo di ottenere materiali compromettenti su Hillary Clinton, oppure che Donald Trump Jr., il figlio maggiore di Trump, per mesi fu in contatto con diverse figure legate al governo russo e con Wikileaks, l’organizzazione guidata da Julian Assange che secondo l’intelligence americana ha collaborato col governo russo per condizionare la campagna elettorale statunitense. Trump stesso, inoltre, in più occasioni ha difeso ed elogiato il presidente russo Vladimir Putin, e definito l’indagine speciale una «caccia alle streghe».
C’è un primo problema, però. Se anche Mueller riuscirà a dimostrare che c’è stata una “collusione” fra il comitato di Trump e i russi, non è detto che riuscirà ad incriminare i responsabili. Il reato di “collusione” non esiste, come fanno notare spesso i difensori di Trump, ed è difficile incasellare questa presunta collaborazione in un reato specifico. Le attenzioni di Mueller, però, si stanno concentrando su una seconda accusa, molto più circoscritta e legata allo stesso Trump, e più facile da provare: “obstruction of justice”, intralcio alla giustizia, per avere ostacolato le prime indagini dell’FBI sulla “collusione” coi russi. È un’accusa che in molti hanno paragonato a quella contenuta nella mozione per l’impeachment di Richard Nixon nel 1974.
La vicenda è legata soprattutto al licenziamento da parte di Trump del direttore dell’FBI James Comey, avvenuto il 9 maggio. Nelle settimane precedenti, ha raccontato Comey sotto giuramento, Trump gli aveva fatto molta pressione sia per “lasciar perdere” l’inchiesta su Flynn sia per chiudere rapidamente le indagini che l’FBI stava conducendo sull’ingerenza russa nella campagna elettorale per le presidenziali. Trump, fra le altre cose, chiese a Comey la sua “lealtà” e di dichiarare in pubblico che l’indagine non riguardava lui direttamente. Comey si rifiutò di fare entrambe le cose, e fu licenziato.
Mentre i difensori di Trump stanno seguendo una linea piuttosto precisa sul filone della “collusione” – i suoi collaboratori, se hanno commesso qualche reato, lo hanno fatto in maniera indipendente e il presidente non ne sapeva nulla – sull’accusa di avere ostacolato le indagini hanno dimostrato una certa confusione.
La versione iniziale del dipartimento di Giustizia sosteneva che Comey fosse stato licenziato per aver gestito male lo scandalo delle mail di Hillary Clinton. Trump stesso aveva smentito questa versione pochi giorni dopo, spiegando di averlo fatto perché riteneva che Comey stesse facendo un cattivo lavoro anche in relazione al caso Russia. Ancora oggi la difesa dei suoi avvocati sul tema dell’ostruzione alle indagini non è chiarissima; a fine ottobre Ty Cobb, uno degli avvocati assunti da Trump per difendersi, aveva riferito che il suo staff non aveva ancora «esplorato la questione» perché «i fatti non l’hanno richiesto».
Più di recente un altro degli avvocati del team di Trump, John Dowd, ha spiegato a diversi giornali americani che secondo lui Trump non può essere accusato di aver ostacoalto le indagini perché «il presidente è il capo delle forze dell’ordine e ha ogni diritto di esprimere la sua opinione su qualsiasi inchiesta». Questa linea di difesa è stata smentita persino dal suo collega Ty Cobb, e da diversi altri esperti. Dowd peraltro si è preso la responsabilità di aver scritto un tweet recente nel quale Trump ammetteva – come molti sospettano già – che sapesse che Flynn aveva mentito all’FBI quando aveva chiesto a Comey di chiudere un occhio su di lui, e lo aveva poi licenziato.
È ancora troppo presto per capire cosa succederà a Trump e ai suoi collaboratori più stretti: secondo le ultime previsioni, l’indagine di Mueller proseguirà per mesi, forse per tutto il 2018. Bisogna infine tenere conto di due cose. Primo: secondo l’interpretazione più condivisa delle leggi statunitensi un presidente non può essere incriminato durante il suo mandato, e a meno di grossissime sorprese e forzature non lo sarà nemmeno Trump. Mueller potrebbe provare ad arrivare a quel punto solo attraverso prove inoppugnabili e una sentenza della Corte Suprema.
Secondo: il principale meccanismo con cui un presidente può essere deposto, l’impeachment, è un procedimento politico e non giudiziario. Perché un presidente statunitense sia rimosso dal suo incarico è necessario che la maggioranza semplice della Camera voti a favore e successivamente facciano lo stesso i due terzi dei senatori. Oggi i Repubblicani hanno la maggioranza sia alla Camera (dal 2010), dove sono 238 su 435, che al Senato (dal 2014), dove sono 52 su 100. Se anche tutti i parlamentari Democratici votassero a favore dell’impeachment, sarebbero comunque molto lontani dai voti necessari per portarlo a termine. Trump è ancora molto popolare fra l’elettorato Repubblicano, e mettendosi contro di lui i senatori del partito potrebbero rischiare di venire isolati dal processo legislativo e di perdere il proprio seggio alle prossime elezioni.