Perché continuiamo a parlare di Ilva
Proteggere insieme occupazione e salute non è semplice: lo dimostra il ricorso presentato dal comune e dalla Puglia, criticato da governo e sindacati insieme, che rischia di bloccare di nuovo la produzione
Nell’ultima settimana si è tornati a parlare della possibilità che l’acciaieria Ilva di Taranto venga spenta, rischiando così di far saltare l’acquisizione da parte del consorzio Am InvestCo Italy, oltre che il posto di lavoro di 14 mila dipendenti e la possibilità di bonificare l’area inquinata vicino alla città di Taranto. L’ultimo intoppo nella lunga e travagliata storia dell’acciaieria è un ricorso presentato al TAR dal comune di Taranto e dalla regione Puglia contro l’autorizzazione che il governo ha dato all’azienda di continuare a produrre fino al 2023, quando dovrebbero essere terminati i lavori di bonifica dell’impianto.
Il decreto, di fatto, permette allo stabilimento di continuare a inquinare per cinque anni oltre le misure normalmente consentite, in vista dell’acquisizione e della bonifica. Secondo il comune di Taranto e la regione, sostenuti dai comitati di cittadini e dalle associazioni ambientaliste, è un periodo di tempo troppo lungo, soprattutto per una città come Taranto che da anni è colpita dalle emissioni fuori misura dell’enorme stabilimento costruito a ridosso del centro urbano. Governo e sindacati, però, hanno attaccato la decisione, sostenendo che il ricorso alla magistratura è la strada sbagliata per migliorare la situazione.
La storia fino a oggi
La vicenda di Ilva è cominciata nel 2012, quando la magistratura aveva disposto il sequestro dell’acciaieria e l’arresto di alcuni suoi dirigenti, tra cui i proprietari, la famiglia Riva, per violazioni ambientali. Nell’ordinanza di sequestro era scritto: «Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Per i due anni successivi il governo cercò di mantenere aperta almeno una parte dell’acciaieria e proseguire la produzione, che è molto importante per diversi settori dell’industria italiana. La strada per ottenere questo risultato fu l’approvazione di una serie di leggi che, semplificando, consentivano alla società di inquinare oltre i livelli consentiti e rimandavano il termine entro il quale l’impianto doveva essere riportato a norma.
Nel 2014 la società era stata commissariata e agli amministratori nominati dal governo era stato dato il compito di iniziare il risanamento ambientale ed economico, per poi metterla in vendita. Nel gennaio 2016 era stato pubblicato il bando per la messa in vendita di Ilva. Ad aggiudicarselo era stato il consorzio Am InvestCo Italy, formato dalle società Arcelor Mittal e Marcegaglia. Lo scorso 29 settembre il governo ha approvato una nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), con cui autorizza lo stabilimento di Taranto a continuare a produrre alle attuali condizioni fino al 2023, quando le opere di bonifica e riduzione delle emissione dovranno essere ultimate.
La questione del ricorso
A novembre, in una serie di incontri con il governo e con i sindacati, Am InvestCo Italy ha spiegato come intendeva procedere alla bonifica dell’impianto di Taranto e alla diminuzione delle sue emissioni dannose. La società si è impegnata a investire 1,15 miliardi di euro in questi progetti dal 2018 al 2023, quando scadrà l’AIA approvata dal governo. I sindacati sono sembrati abbastanza soddisfatti, anche se i leader della FIOM sono apparsi più prudenti di quelli di UILM, il più grande sindacato tra i lavoratori di Taranto, e di FIM CISL.
Al comune di Taranto e alla regione Puglia, invece, il piano non è piaciuto. Il 16 novembre, a Roma, era previsto un altro incontro in cui la società avrebbe dovuto presentare il suo piano ambientale agli enti locali. Il sindaco di Taranto, però, si è rifiutato di partecipare, chiedendo che venisse aperta una trattativa diretta, un “tavolo” a cui avrebbero dovuto partecipare solo gli enti locali toccati direttamente dalla questione dello stabilimento di Taranto. Il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, aveva chiesto di essere convocato entro il 24 novembre e, quando la convocazione non è arrivata, ha annunciato che avrebbe fatto ricorso al TAR contro l’AIA approvata dal governo il 29 settembre (l’autorizzazione che consente all’Ilva di Taranto di continuare a produrre alle attuali condizioni fino al 2023). Il 28 novembre il presidente della Puglia Michele Emiliano e Melucci hanno annunciato ufficialmente di aver presentato il ricorso.
Come spesso accade in Italia quando c’è di mezzo la magistratura amministrativa, non è chiaro cosa potrebbe accadere ora. Se il TAR dovesse accogliere il ricorso è possibile che l’AIA venga sospesa in attesa della decisione finale del Consiglio di Stato (al quale probabilmente il governo farà appello). In quel caso lo stabilimento di Taranto potrebbe essere costretto a interrompere tutte le attività, con conseguenze imprevedibili. Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (da tempo molto attivo sulla vicenda), ha criticato duramente la decisione di Emiliano e ha ipotizzato che potrebbe portare ad un ritiro dell’offerta di Am InvestCo Italy. «Emiliano», ha detto Calenda, «ha fatto ricorso su tutto: dai vaccini al Tap, all’Ilva stessa. Per fortuna li ha sempre persi. Oggi però la situazione è diversa, perché il rischio è che Mittal ritenga impossibile gestire l’acciaieria più grande dell’Unione Europea con il sindaco della città e il presidente della regione che vogliono cacciarlo».
I sindacati UILM e FIM-CISL si sono schierati con Calenda e venerdì scorso hanno organizzato un presidio di fronte alla sede della regione Puglia per protestare contro il ricorso, che secondo loro mette a rischio i posti di lavoro dei 14 mila dipendenti. La FIOM ha una posizione più morbida: ha criticato il ricorso ma ha preferito non partecipare al presidio e ha chiesto a tutte le parti in causa di tornare a trattare. Il ministro Calenda ha fatto sapere di essere pronto a ricominciare le trattative se la regione e il comune ritireranno il ricorso. Ha anche detto che, fino a che il TAR non avrà preso una decisione, tutti i colloqui sono sospesi.
Gli altri problemi
Quello ambientale, però, è solo l’ultimo dei problemi che si sono presentati nella questione Ilva. All’inizio dello scorso ottobre i sindacati hanno organizzato scioperi e manifestazioni quando la società ha presentato un piano che prevedeva il licenziamento di 4 mila dipendenti e l’assenza di “continuità aziendale” per tutti gli altri, che avrebbe significato assumere i diecimila operai rimanenti con un nuovo contratto a tutele crescenti secondo le regole del Jobs Act, facendogli inoltre perdere l’anzianità acquisita. All’epoca Calenda si schierò con i sindacati, facendo saltare un importante incontro con la società e dichiarando che sulla base del piano che prevedeva migliaia di esuberi e un nuovo contratto non si sarebbe nemmeno potuto iniziare a discutere. A novembre, nel corso di una serie di incontri tra società, sindacati e governo la situazione sembra almeno in parte essersi sbloccata. I sindacati, in particolare la FIOM, sono rimasti scettici sulle intenzioni di Am InvestCo Italy, ma – almeno per il momento – le trattative erano riprese.
Un altro problema ancora si deve alla procedura di infrazione aperta dalla Commissione Europea, secondo la quale con l’acquisizione di Ilva, Arcelor Mittal (il socio principale di Am InvestCo Italy) potrebbe arrivare ad avere una posizione dominante nella produzione dell’acciaio europeo, violando così la normativa anti-trust dell’Unione. La procedura dovrebbe terminare entro il prossimo 23 marzo, ma secondo molti potrebbe concludersi anche prima. In caso di richiesta da parte dell’antitrust europea di ridurre la produzione per non superare le soglie, Am InvestCo Italy ha promesso di non ridurre o modificare la produzione in Italia, ma piuttosto di dismettere altre sue attività all’estero.
Come dimostra la storia degli ultimi mesi, quella dell’Ilva è una delle questioni industriali più complesse degli ultimi anni, in cui si intrecciano esigenze e interessi differenti e spesso in contrasto. Una delle questioni principali è quella ambientale. Negli anni, anche a causa delle numerose violazioni della normativa ambientale, lo stabilimento ha causato molti danni alla popolazione cittadina, portando a proteste e alla formazione di comitati cittadini. Gli enti locali, come il comune di Taranto e la regione Puglia, sono quelli che più spesso si sono fatti portavoce di queste istanze (e lo hanno fatto anche nell’ultima circostanza, con la presentazione del ricorso al TAR contro l’autorizzazione ambientale concessa dal governo).
Ma c’è anche un problema occupazionale: l’Ilva dà lavoro direttamente a 14 mila persone, e tramite l’indotto, ad altre migliaia. Soprattutto a Taranto è una realtà importantissima per l’economia locale. Infine c’è la questione industriale, il fatto cioè che l’acciaio prodotto da Ilva è molto importante per l’economia italiana e, se gli stabilimenti dovessero chiudere, diverse aziende italiane sarebbero costrette a rifornirsi all’estero, soprattutto in Germania, acquistando acciaio a prezzi maggiorati. Proteggere contemporaneamente tutti questi interessi è molto complesso e continua a portare scontri tra enti locali, sindacati e governo.