L’uomo più potente del Myanmar
È il capo dell'esercito ed è il maggiore responsabile del fallimento del passaggio alla democrazia: potrebbe candidarsi a presidente nel 2020
L’8 novembre di due anni fa si tennero in Myanmar – lo stato di 51 milioni di abitanti nel sudest dell’Asia noto anche come Birmania – le prime elezioni dalla fine della dittatura militare, che era durata mezzo secolo. Il primo partito, con distacco enorme sugli altri, fu la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), guidata dall’unico leader birmano conosciuto a livello internazionale, una donna: il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. NLD era stato fino a quel momento il principale partito di opposizione in Myanmar e Aung San Suu Kyi si era fatta 15 anni di arresti domiciliari a Yangon per le sue critiche al precedente regime militare. Con le elezioni del 2015 sembrava che le cose potessero cambiare, che Aung San Suu Kyi potesse provare a limitare il potere conservato dall’esercito e imporre, col tempo, un governo fatto completamente da civili. Oggi, a due anni da quelle elezioni, è successo poco di tutto questo: tra le altre cose, il governo del Myanmar è considerato responsabile di una delle crisi umanitarie più gravi degli ultimi anni – quella che coinvolge i rohingya – e l’esercito ha raggiunto un livello di popolarità tra la popolazione birmana che non si vedeva da decenni.
Negli ultimi mesi organizzazioni umanitarie e leader di paesi occidentali hanno criticato Aung San Suu Kyi per quella che è stata definita una “pulizia etnica” ai danni dell’etnia rohignya, di religione musulmana, e che da agosto ad oggi ha costretto più di 600mila persone a lasciare le loro case e rifugiarsi nei campi profughi in Bangladesh. In realtà, hanno sostenuto diversi analisti ed esperti, la persona che ha pianificato e ordinato le violenze non è stata Aung San Suu Kyi, a cui la Costituzione birmana attribuisce poteri limitati, ma il capo dell’esercito birmano, il generale Min Aung Hlaing, cioè l’uomo oggi più potente e influente del Myanmar, che potrebbe anche candidarsi a diventare il prossimo presidente del paese.
Min Aung Hlaing, 61 anni, è diventato capo dell’esercito nel 2011, nel mezzo della transizione verso la democrazia, ma il suo nome era conosciuto anche prima. Nel 2009 aveva guidato le operazioni militari nel Myanmar occidentale contro due minoranze etniche, gli Shan al confine con la Thailandia e i Kokang al confine con al Cina: decine di migliaia di persone furono costrette a lasciare le loro case e a superare il confine, e l’esercito fu accusato di uccisioni, stupri e incendi sistematici, le stesse violenze usate negli ultimi mesi contro i rohingya nel nord del Rakhine, stato occidentale del Myanmar. Min Aung Hlaing condivide con molti altri birmani l’ostilità nei confronti dei rohingya: in un recente post su Facebook, per esempio, li ha chiamati non rohingya ma bengalesi, sottintendendo che siano originari del Bangladesh, un argomento usato da decenni per giustificare l’emarginazione e la persecuzione di questa minoranza etnica.
Prima di diventare l’uomo più potente del Myanmar, Min Aung Hlaing non aveva avuto una carriera brillantissima. Dopo avere finito scuole superiori, studiò per un periodo giurisprudenza, ma la sua ambizione era quella di entrare nella principale e più prestigiosa accademia militare birmana: ci riuscì solo al terzo tentativo, e poi finì gli studi regolarmente. Non era particolarmente popolare in quel periodo, ha raccontato il New York Times: «Il futuro generale era conosciuto per il suo sorriso, ma la sua tendenza a criticare e dare la colpa agli altri gli fece ottenere pochi amici». Nel 2011 un allievo dell’accademia, U Aung Lynn Htut, raccontò in un’intervista alla radio che al giovane Min Aung Hlaing piaceva “bullizzare” i nuovi studenti: «Avevamo molta paura di lui. Ogni volta che lo incrociavamo aveva sempre qualcosa da ridire. Per questo cercavamo sempre di stargli alla larga».
Min Aung Hlaing divenne ufficiale di fanteria nel 1977 e negli anni successivi cominciò a occuparsi della guerra contro le minoranze etniche del Myanmar, usando la strategia dei cosiddetti “quattro tagli”: ovvero isolare i ribelli dai civili interrompendo i rifornimenti di cibo, di soldi, la trasmissione di informazioni di intelligence e limitando il sostegno popolare. Min Aung Hlaing fu nominato capo dell’esercito del Myanmar nel 2011, prendendo il posto del generale Than Shwe. Il piano di Than Shwe era quello di trovare un successore che non lo avrebbe accusato per le enormi violenze di cui era stato responsabile negli anni precedenti, e nemmeno per le ricchezze che aveva accumulato. Min Aung Hlaing, in altre parole, fu considerato l’uomo giusto per garantire la continuità del potere dell’esercito nella politica birmana.
Finora il piano di Than Shwe sembra avere funzionato, anche per ragioni strutturali. Secondo la Costituzione del 2008, infatti, all’esercito è garantito un quarto dei seggi nel Parlamento birmano (quota che permette di bloccare qualsiasi proposta di cambiamento della Costituzione), la nomina di tre ministri importanti, il comando della polizia e delle guardie di frontiera e il controllo di ampi settori dell’economia. I militari continuano inoltre ad avere enorme potere nella gestione delle terre, che in Myanmar sono per lo più di proprietà del governo.
Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, le violenze contro i rohingya avrebbero creato della tensione tra il generale Min Aung Hlaing e Aung San Suu Kyi, senza però produrre finora conseguenze rilevanti. Aung San Suu Kyi si è schierata senza mezzi termini a favore dell’esercito, anche perché le divisioni interne alla società birmana e semplici logiche elettorali non le avrebbero lasciato molte altre alternative. I rohingya, una delle minoranze etniche più perseguitate al mondo, sono visti con grande ostilità dalla stragrande maggioranza dei birmani, di etnia bamar e di religione buddhista. L’impressione è che Min Aung Hlaing stia provando a sfruttare questa situazione, lasciando che Aung San Suu Kyi si prenda tutte le critiche dei paesi occidentali e costruendosi allo stesso tempo un consenso che potrebbe sfruttare per candidarsi a nuovo presidente del Myanmar, nel 2020.