I classici disturbi d’ansia di Otto
L'entrata in scena del protagonista nel nuovo romanzo di Giacomo Papi, "La compagnia dell'acqua"
La compagnia dell’acqua è il nuovo romanzo di Giacomo Papi, editor, giornalista e scrittore, collaboratore della sezione Libri del Post, che in questo libro riprende la sua capacità di scrittura ricca di brillantezze ironiche che è insieme per adulti e per ragazzi, come aveva fatto nel romanzo di due anni fa I fratelli Kristmas (entrambi i libri sono stati pubblicati da Einaudi).
La compagnia dell’acqua racconta le storie di una popolazione fantastica che abita nel sottosuolo di Milano e con cui si trova a che fare il ragazzo Otto, protagonista del romanzo, in una assortita serie di considerazioni letterali e metaforiche sui nostri mondi e le loro preoccupazioni. Questo è il secondo capitolo, quello in cui appare Otto.
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Alle sette e dieci di mattina Otto era seduto sul water a osservarsi i piedi. Stavano lí sul pavimento ed era certissimo che gli fossero cresciuti durante la notte. Ormai avevano quasi raggiunto la lunghezza della piastrella, ancora due millimetri e non calpestare le fughe gli sarebbe stato impossibile. Era una delle sue scaramanzie. Doveva escogitarne in fretta un’altra, ma non aveva tempo, doveva andare a scuola. Sua madre lo chiamava dal piano di sopra.
– Sbrigati, Otto, se no fai tardi. – Adesso arrivo, mamma.
Stava per alzarsi quando si accorse che non era il caso. Spinse e sentí plof. La questione della cacca lo appassionava fin da piccolo. Suscitava un sacco di domande:
- La cacca è una cosa inanimata come i sassi oppure è viva come il legno?
- Qualcuno è mai riuscito a fare la cacca senza fare la pipí?
- Da che cosa dipende l’odore?
- Da cosa dipende la forma?
- Le persone piú grandi la fanno piú grande?
- I neonati la fanno piú nuova?
- Perché le cose da mangiare sono di tanti colori, mentre la cacca è soltanto marrone?
- Le persone con la pelle piú scura fanno la cacca piú scura? Le persone albine la fanno bianca?
- Quanti chili ne aveva fatta, lui, in vita sua?
Per calcolarlo si pesava prima e dopo, e cosí era giunto alla conclusione che ne faceva circa centocinquanta grammi al giorno, cioè quasi cinquantacinque chili all’anno che, moltiplicati per gli undici anni e mezzo della sua vita, facevano sei quintali e trecento, una bella montagna, e se avesse vissuto novant’anni sarebbero diventati 4,9 tonnellate, che era il peso di un mammut di medie dimensioni. Si complimentò con sé stesso per la precisione e attese cinque secondi per assicurarsi di avere finito, poi portò la mano destra sopra la spalla sinistra, schiacciò il pulsante dello scarico e sentí fresco al sedere: un milione di minuscole gocce rimbalzanti dalla ceramica gli bagnarono la pelle. Il rumore dello sciacquone gli fece visualizzare cascate di liquidi – cacca, pipí, acque schiumose di dentifrici e shampoo – che in quell’esatto momento, come ogni mattina, si stavano riversando attraverso i tubi di scarico nascosti dentro i muri e scivolavano giú, fino a infiltrarsi sotto le strade. Formulò la decima domanda:
10. Dove va a finire la cacca delle città?
Per un istante nel suo cervello si formò l’immagine di un mammut interamente composto di cacca: il Caccut risaliva al galoppo corso di Porta Venezia lanciando schizzi sulle vetrine di Dolce&Gabbana, attraversava scalpitando piazza della Scala prima di scapicollarsi in corso Vittorio Emanuele a terrorizzare i clienti di Gap, Zara e H&M, e le mamme e i bambini rinchiusi al Disney Store, ma al Caccut non interessava niente, voleva soltanto raggiungere il Duomo per grattarsi, strusciandosi, contro il marmo rosa di Candoglia. La scena lo fece sorridere. Si era alzato. La mamma stava scendendo le scale. Corse a nascondersi dietro la porta della sua camera. Da piccolo si nascondeva sempre quando lei veniva a cercarlo. Gli piaceva molto farsi trovare. Trattenne il respiro. La osservò dirigersi verso il letto, scostare le tende per controllare e gli venne da ridere. La mamma lo udí e si girò. Aveva la faccia seccata, ma si vedeva che sotto sotto rideva anche lei.
– E basta, Otto! Non posso giocare a nascondino. Devo andare al lavoro.
Otto venne fuori e si mise a preparare lo zaino. Era il penultimo giorno di scuola, ma i libri bisognava portarli lo stesso. Mancavano solo il manuale di Storia e i due di Tedesco – la mamma ci teneva che studiasse tedesco –, li ficcò in borsa, poi richiuse la lampo dell’astuccio e infilò dentro anche quello. Era un altro dei suoi riti: l’astuccio andava messo per ultimo. La mamma lo osservava impaziente.
– Sono pronto, madre.
Lei sospirò.
– Sei proprio impossibile, Otto Vento.
Lo chiamava sempre per nome e cognome quando era nervosa ed era spesso nervosa. Altrimenti usava uno dei i suoi mille soprannomi[1].
– Il vento è inafferrabile, mamma.
Lei scosse la testa.
– Lo diceva anche quell’altro… identico…
Quell’altro identico era suo padre, che era volato via come il vento quando Otto era appena nato. Non sapeva quasi niente di lui, soltanto che aveva avuto un incidente, ma non gli avevano mai spiegato bene dove e in che modo, cosí aveva rinunciato a chiedere per non ottenere risposte evasive. Sapeva che si chiamava Matteo, ma che i suoi amici lo chiamavano Matto Vento. E che era pieno di allegrie e di paure: si entusiasmava per le altre persone oppure le temeva e si metteva in testa che lo seguissero. La nonna diceva che quando arrivava, entrava in casa soffiando come un vento leggero, di quelli che fanno ridere il mondo, e infatti tutti ridevano, ma a volte era cupo e furioso, come il vento che passa dentro i camini, e allora faceva paura. È difficile sentire la mancanza di qualcosa che è sempre mancato, eppure a volte Otto la sentiva lo stesso. Si stava mettendo le calze, lentamente, perdendo tempo, perché in realtà studiava ancora i suoi piedi. Li aveva sempre considerati due estranei, creature rosa e grassocce piene di dita squadrate, del gruppo degli artropodi o dei celenterati, come i polpi e le meduse.
La mamma era già tornata di sopra. Adesso Otto doveva sbrigarsi davvero. Le scarpe le avrebbe messe prima di uscire. Erano vicino alla porta d’entrata perché nella loro casa si camminava scalzi, la mamma non voleva che si portasse dentro lo sporco, che normalmente descriveva cosí: «resti di sputo secco», «pipí di cane vecchio» e soprattutto «uova di scarafaggio». Otto incominciava a vederla come un essere umano, a riconoscere i suoi difetti, errori e aspetti ridicoli, e questo lo faceva sentire indifeso.
Prese lo zaino e raggiunse le scale, attento a non calpestare le righe tra le piastrelle. A scuola, per via delle scaramanzie, i compagni lo chiamavano Skaraman. Dicevano che era un supereroe, però sfigato.
Quando aveva sette anni, l’amica psicologa evolutiva della mamma gli aveva spiegato che i suoi riti erano «classici disturbi d’ansia, tipici della tua età», e Otto aveva annuito – certo, sí, i classici disturbi d’ansia tipici della mia età – anche se non sapeva bene che cosa fosse l’ansia e che cosa volesse dire, e si era vergognato di chiederlo. Immaginò fosse una specie di ansa, come le curve dei fiumi, una rientranza dell’umore, una macchia che lo rendeva diverso e piú debole, e da quel momento incominciò a concepirsi concavo, un bambino che sembrava normale ma aveva un vuoto infilato da qualche parte, non capiva esattamente dove, forse dentro la testa o nella pancia oppure al posto del cuore.
In cucina la colazione era pronta. Otto afferrò il cucchiaio, accorgendosi con orrore che era stato apparecchiato al contrario, con il manico in alto. Che tipo di segnale era? Sarebbe successo qualcosa di brutto? Sua madre era sulla porta di casa, pronta per uscire, e controllava il telefonino. I cereali galleggiavano nel latte. Otto preferiva versarselo da solo, il latte, cosí i cereali non si rammollivano troppo, ma la mamma per fare piú in fretta glielo preparava appena sveglia, e adesso lui non poteva rimediare. I cereali erano di una marca islandese, Bio-Sag, e li vendevano al supermarket biologico, mentre quelli che piacevano a lui, al cioccolato, per la mamma erano «puro veleno». Spalancò la bocca e chiuse gli occhi – era una delle rare persone che quando mangiano serrano le palpebre invece di sgranarle – e si concentrò sul sapore. Sapevano di sabbia per gatti. Dalla porta, la mamma si accorse della sua faccia.
– Mangiali. Ti fanno benissimo.
– Ma fanno schifo, mamma.
– È perché sono naturali, Otto.
– Anche la cacca è naturale, mamma.
Otto sentì l’ansa scavare – o era l’ansia? – come una gobba all’indentro. Pensò a un dromedario al contrario e per scacciare l’immagine si concentrò sulla cacca. Era cosí strano pensare che tutti la facessero, anche le professoresse, i calciatori, gli scienziati. Anche le persone famose. Anche sua mamma la faceva. Undicesima domanda:
11. Le cacche dei parenti si assomigliano?
La mamma finalmente uscí di casa. Lavorava per la Ong Congo, un’associazione non governativa che aiutava i bambini poveri, e ogni volta che Otto faceva qualcosa che non le andava, lo minacciava di partire per l’Africa. Ma questa volta era vero. Sabato sarebbe partita per Londra e Otto sarebbe andato dalla nonna. Da Londra la mamma sarebbe volata a Kinshasa e da lí a Kindamba, il villaggio dove c’era l’Ong e dove sarebbe rimasta una settimana. Che poi era strano che per andare a sud si andasse prima a nord, come se per andare a Palermo da Milano si passasse prima a Varese. La immaginò vestita da esploratrice, immersa in un pentolone ribollente pieno di cereali islandesi Bio-Sag e circondata da un’orda di bambini neri che danzavano all’ombra di un baobab. Per punirsi della propria visione si costrinse a finire quello che aveva nella scodella. Ripensò al cucchiaio a testa in giú. Se lo sentiva proprio che non era un buon segno.
* * *
[1] Otto si chiamava Otto perché era nato l’8 ottobre 2008 e perché sua mamma da piccola aveva un bassotto che si chiamava Otto. Ovviamente il suo nome veniva storpiato in mille modi: la mamma e la nonna preferivano i vezzeggiativi, scegliendoli a seconda delle circostanze: Bassotto – Scemotto – Tigrotto – Risotto – Cicciotto – Cosciotto – Orsacchiotto – Bambolotto – Ciuffolotto – Fagotto – Giovanotto – Lupacchiotto; la dottoressa lo chiamava Cerotto; il barista, Chinotto; il panettiere, Biscotto; il carrozziere, Cruscotto; il bagnino, Canotto; il sarto, Giubbotto; il macellaio, Salsicciotto; il poliziotto, Poliziotto. E l’uomo del lunapark, Ottovolante. Come se non bastasse, i soprannomi aumentavano per via del suo cognome, Vento: la professoressa di Matematica, facendo l’appello, lo chiamava Vent’Otto, e quello di Storia Otto Cento. L’ultima variante era l’età: a 4 anni gli altri bambini lo chiamavano Quattro, Cinque a 5, Sei a 6, Sette a 7, però, quando finalmente aveva compiuto 8 anni, avevano incominciato a chiamarlo Skaraman.