Molti soldi della Silicon Valley arrivano dall’Arabia Saudita, ma nessuno vuole parlarne
Il New York Times racconta gli investimenti di un paese profondamente antidemocratico nelle aziende che dicono di voler rendere il mondo un posto migliore
Farhad Manjoo, uno dei più importanti giornalisti di tecnologia al mondo, che scrive per il New York Times, ha raccontato in un articolo della quantità di soldi provenienti dall’Arabia Saudita raccolti dalle aziende della Silicon Valley; aziende dall’immagine pubblica progressista e aperta che contrasta con le politiche del regime saudita.
Manjoo scrive che le aziende di tecnologia hanno sempre provato a non parlare di questa storia, che è tornata ad attirare attenzioni dopo lo scorso weekend, quando ci sono stati decine di arresti e misteriosi incidenti nell’ambito di un regolamento di conti nella classe dirigente del paese. Tra gli arrestati c’era anche il principe Alwaleed bin Talal, uno degli uomini più ricchi al mondo e importante investitore di società come Apple, Lyft (una società diffusa negli Stati Uniti e simile a Uber) e Twitter.
Molti soldi delle società della Silicon Valley arrivano anche dal Fondo Pubblico d’Investimento (FPI), un fondo sovrano che utilizza i soldi provenienti dal petrolio per investimenti per conto della monarchia saudita. SoftBank, un importante conglomerato giapponese che investe nelle società di tecnologia, gestisce il Vision Fund, un fondo da 100 miliardi di dollari di cui circa 45 provengono proprio dal FPI. Tra le aziende che hanno ricevuto finanziamenti dal Vision Found ci sono l’app di messaggistica per aziende Slack, la società che progetta spazi di co-working fisici e virtuali WeWork, e anche Uber, il servizio di autonoleggio con autista, che ha ricevuto nel 2016 un investimento di 3,5 miliardi dal FPI. Nel 2011, Twitter ricevette 300 milioni di investimenti da un fondo del principe Alwaleed («più o meno nello stesso periodo in cui stava assumendo il suo ruolo nelle primavere arabe», ha ricordato Manjoo) e Lyft ne ricevette 105 milioni nel 2015.
Tutte e tre le società si sono rifiutate di commentare questo tipo di finanziamenti per l’articolo di Manjoo. Qualcuno gli ha parlato privatamente, spiegando che il principe Alwaleed non era allineato con il governo saudita, e che aveva promosso alcune riforme relativamente progressiste per il paese, come l’abolizione del divieto per le donne di guidare. Altri hanno fatto notare che qualcosa si sta effettivamente muovendo in Arabia Saudita: il piano di riforme “Vision 2030” vorrebbe rendere il paese non più dipendente dal petrolio entro il 2030, e soprattutto un po’ più moderno. Ci sono comunque molti dubbi sulla riuscita di questo progetto.
Le aziende della Silicon Valley nella maggior parte dei casi si stanno impegnando pubblicamente per costruirsi l’immagine di motori dei cambiamenti sociali dell’Occidente, in senso progressista. Si sono spesso fatte portavoce di valori come tolleranza, democrazia e diversità, e più di recente, dopo alcuni casi molto discussi sui giornali, si sono impegnate a essere più inclusive nei confronti delle donne e delle minoranze. Tutte promesse che contrastano con le politiche dell’Arabia Saudita, un paese che non rispetta i diritti umani, che da sempre discrimina le donne, per non parlare degli omosessuali, e che ha un’interpretazione retrograda e antidemocratica dell’Islam.
Freada Kapor, co-presidente del Kapor Center for Social Impact, che si occupa di promuovere la diversità e la tolleranza tra le società di tecnologia, ha spiegato a Manjoo che le aziende della Silicon Valley potrebbero decidere di non fare affari con l’Arabia Saudita, ma che hanno perso “la bussola della morale”. Secondo Kapor, i dirigenti di queste aziende sono talmente elitisti che «è fin troppo facile per loro razionalizzare il loro comportamento con la convinzione che sono gli uomini più furbi – e sì, sono sempre uomini – in circolazione». Molti dirigenti della Silicon Valley che fanno affari con l’Arabia Saudita li giustificano sostenendo che in questo modo contribuiscono alla modernizzazione dell’Arabia Saudita. La posizione delle aziende che ricevono investimenti di questo tipo è aiutata anche dal fatto che avvengono tramite fondi intermediari, che da un lato rendono il legame più tollerabile per i dirigenti, dall’altro permettono di renderlo meno evidente a dipendenti, clienti e altri investitori.
Qualcuno dice anche che le aziende accettano questi investimenti per disperazione, perché sono gli unici disponibili. Manjoo fa però notare che aziende come Slack hanno raccolto più soldi di quelli che hanno intenzione di spendere: secondo lui, accettano i soldi sauditi «perché sono lì, e nessuno fa poi così tanto casino se li accettano».