Il “cavallo di Troia” era una nave?
Se ne parla per via di un'argomentata ipotesi avanzata da un archeologo italiano, che però ha qualche punto debole
di Luca Misculin
Nei giorni scorsi sui quotidiani italiani si è tornati a parlare di uno degli episodi più famosi della letteratura antica: la presa della città di Troia da parte degli antichi greci con il celebre stratagemma del cavallo di legno, il “cavallo di Troia”. Se n’è riparlato perché un archeologo italiano che si occupa spesso di relitti greci, Francesco Tiboni, ha proposto una teoria alternativa un po’ spiazzante: secondo le sue ricerche il cavallo non era un cavallo, bensì una nave. Secondo Tiboni l’equivoco sarebbe dovuto a un errore di interpretazione degli scrittori successivi a Omero, a cui viene attribuita la stesura dell’Odissea, il testo più antico in cui compare lo stratagemma del cavallo.
Tiboni non è il primo a ipotizzare che il cavallo di Troia potesse non essere un cavallo: altri in passato hanno pensato a una catapulta o a un ariete da guerra. Negli ultimi anni, però, Tiboni è stato l’unico a svilupparla compiutamente. La sua ipotesi è spiegata in dettaglio in due articoli usciti di recente nelle riviste specializzate Archaeologia Maritima Mediterranea e Archeologia viva e soprattutto in un libro uscito questa estate per la casa editrice Edizioni di storia e studi sociali, intitolato La presa di Troia: un inganno venuto dal mare.
Una premessa
L’Iliade e l’Odissea, i due testi che raccontano l’assedio di Troia e il ritorno a casa dell’eroe greco Odisseo, non vanno presi come romanzi o trattati di storia. Prima di essere trasferiti in forma scritta, si pensa intorno all’ottavo secolo a.C., furono tramandati e rielaborati oralmente per secoli, e quasi certamente facevano parte di un corpo molto più ampio di racconti.
Parliamo quindi di due testi che non sono stati composti da un unico autore, e che come altre leggende tramandate a voce non hanno alcuna pretesa di storicità. Secoli più tardi è successa la stessa cosa alla battaglia di Roncisvalle fra Franchi e Baschi, rimestata e rielaborata in decine di racconti e poemi fino a perdere ogni aderenza con la realtà. Il punto di vista migliore per guardare all’Iliade e all’Odissea – oltre a quello letterario – è considerarle un’enciclopedia degli stili di vita, delle tradizioni e della mentalità della Grecia arcaica, secoli prima della nascita di Platone e Aristotele e della costruzione del Partenone di Atene.
Cercare un riscontro storico a quello che si legge nei poemi omerici è un’operazione delicata e scivolosa. Sappiamo che è esistita davvero una città nel luogo dove è ambientata la vicenda, situata oggi in Turchia, e che venne distrutta da un incendio fra il 1210 e il 1180 a.C. Sappiamo che nel Mediterraneo erano già attivi gli antenati dei popoli che abitavano la Grecia in età classica – quelli che noi, semplificando, chiamiamo “i Greci” – e che avevano interessi commerciali nell’area dello stretto dei Dardanelli. È difficile spingersi oltre. Lo scrive Tiboni stesso in alcuni passaggi del suo libro.
La teoria di Tiboni
Tiboni parte dalla considerazione che nei poemi omerici l’episodio del cavallo di legno è molto marginale. Sui 27mila versi complessivi delle due opere, quelli che ne parlano sono appena qualche decina. L’Iliade non contiene alcun riferimento esplicito allo stratagemma. Alcuni studiosi hanno intravisto degli accenni nel penultimo libro, ma niente di significativo. L’episodio viene citato esplicitamente solo nell’ottavo libro dell’Odissea, per bocca di un cantore che racconta gli ultimi giorni della guerra di Troia. La vicenda, per come la conosciamo, viene sviluppata invece nel secondo libro dell’Eneide, un libro scritto ottocento anni più tardi in un contesto completamente diverso, l’età imperiale romana.
Iniziamo a entrare nell’ipotesi di Tiboni. Nella cultura greca classica sono diversi i casi in cui i cavalli vengono associati alla navigazione: Poseidone è contemporaneamente il dio dei mari e il protettore dei cavalli, e nella letteratura le navi vengono a volte definite “cavalli del mare”. Nell’Iliade e l’Odissea, invece, questo legame è tutto da dimostrare.
Nei poemi omerici il primo passaggio in cui le navi vengono esplicitamente paragonate ai cavalli si trova nel quarto libro dell’Odissea, ai versi 707-709, in una scena in cui Penelope si lamenta del fatto che suo figlio Telemaco sia partito alla ricerca del padre. Tiboni lo giudica un «passaggio-chiave» per la costruzione della sua ipotesi.
«O cantore, perché mio figlio è partito? Non c’era bisogno che si imbarcasse sulle navi veloci, che per gli uomini sono come dei cavalli del mare»
Telemaco si era imbarcato su una nave di Tafi, un popolo non greco noto per commerciare metalli. Tiboni spiega che questo passaggio potrebbe nascondere un popolo e un’attività realmente esistiti, e che avevano davvero a che fare con i cavalli.
In alcuni bassorilievi assiri, realizzati tra il nono e il settimo secolo a.C., sono raffigurate delle navi commerciali con la polena a forma di cavallo. Il più famoso di questi è la cosiddetta decorazione del palazzo di Sargon II a Khorsabad, conservato oggi al Louvre di Parigi, e risalente più o meno al 700 a.C..
Il bassorilievo di Khorsabad mostra l’arrivo di un carico di legname dall’odierno Libano, una terra che ai tempi era abitata dai Fenici. Tiboni spiega che navi simili a quelle disegnate nei bassorilievi in questione sono state trovate in aree del Mediterraneo di colonizzazione fenicia come Spagna e Nord Africa. Di conseguenza, scrive Tiboni, «dal punto di vista navale possiamo affermare che presso i Fenici, nel corso della prima metà del I millennio a.C., era in uso apporre polene zoomorfe a testa di equino […] a decorazione della prua, e in alcuni casi anche della poppa, di navi mercantili»; e soprattutto che questo tipo di imbarcazione era nota ai Greci dell’epoca, che commerciavano frequentemente coi Fenici.
Arriviamo al sodo. Secondo Tiboni, quando nell‘Odissea Omero racconta lo stratagemma con cui venne conquistata Troia citando il “cavallo”, non ha in mente un cavallo vero e proprio, ma una nave come quelle dei Fenici. Hippos, è l’ipotesi di Tiboni, potrebbe essere il termine con cui i Greci chiamavano le navi mercantili non-greche che circolavano ai tempi in cui furono composti i poemi omerici.
Alle prove archeologiche, Tiboni ne aggiunge alcune strettamente letterarie. Nell’unico passaggio dell’Odissea in cui si parla dell’inganno del cavallo, i versi che descrivono la struttura di legno sono molto generici e non citano nessuna parte anatomica dell’animale. Al contrario, molte delle espressioni usate da Omero in quei versi hanno molto più senso se riferite a una nave.
Al verso 504, il cantore che sta narrando la caduta di Troia davanti a Odisseo racconta che i Troiani «trascinarono» il cavallo fino all’acropoli della città, come leggiamo nelle traduzioni in italiano. Il verbo greco in questione, eruo, viene spesso usato da Omero per descrivere l’azione di tirare in secca le navi. L’aggettivo koilos, “concavo”, ricorre due volte nel giro di una ventina di versi per descrivere il cavallo. In molti autori greci successivi sarà invece associato alle navi. Infine l’aggettivo durateos, riferito al cavallo, significa “composto da placche di legno”. Le durata, nella successiva tradizione greca, sono le tavole con cui si costruiscono diversi mezzi di trasporto fra cui le navi (la radice delle due parole è la stessa che in inglese ha generato la parola tree, “albero”).
In sintesi: secondo Tiboni ci sono prove letterarie ed archeologiche per sostenere che nel descrivere il cavallo di Troia Omero avesse in mente una nave e non un cavallo vero e proprio.
Il fatto che in questi secoli in pochissimi abbiano dubitato del fatto che l’oggetto descritto fosse un cavallo, infine, va attribuito a Virgilio. Nell’Eneide, il poeta latino traduce le parole greche durateos hippos come equus ligneus: “cavallo di legno”, difficilmente equivocabile.
Cosa torna, cosa non torna
Il pregio dell’ipotesi di Tiboni è soprattutto unire evidenze letterarie a quelle archeologiche, un approccio ambizioso e molto raro in un campo accademico ultra-specializzato come lo studio dei classici. La parte più convincente del suo libro è quella in cui dimostra l’esistenza di navi-hippos nel Mediterraneo nel periodo in cui si pensa si siano formati i poemi omerici. È legittimo pensare che in quegli anni i Greci avessero presenti queste navi, soprattutto quelli che abitavano nelle città di mare.
I passaggi che funzionano meno, e che fanno scricchiolare la teoria, sono le forzature con cui Tiboni costruisce il suo ragionamento. Per prima cosa, i versi che lui descrive come «il passaggio-chiave per inquadrare il termine hippos dal punto di vista navale» non sembrano così significativi. Analogie del genere – “navi veloci, che per gli uomini sono come dei cavalli del mare” – sono molto frequenti in un testo poetico, e addirittura la norma nei poemi omerici. Né nell’Iliade né nell’Odissea ci vengono esplicitamente presentate delle navi non-greche o fenicie chiamate hippos. Eppure Omero usa un lessico marittimo molto ricco, e indulge spesso in descrizioni dettagliate di imbarcazioni e materiale navale.
La soluzione proposta da Tiboni lascia molti dubbi anche sul piano narrativo, sebbene sia più scivoloso di altri. Perché i Greci avrebbero costruito proprio una nave nella speranza che venisse portata dentro alle mura? Per quale motivo avrebbero costruito un modello esotico come un’imbarcazione fenicia?
I principali argomenti contro la sua tesi, però, li ha forniti Tiboni stesso nell’ottavo capitolo del suo libro, nel tentativo di sminuirne la portata. Possediamo diversi reperti archeologici che raffigurano il cavallo di Troia, alcuni dei quali lontani appena due o tre secoli dal periodo in cui si pensa che i poemi siano stati trascritti: cosa che ci fa pensare che le persone che ascoltarono l’Odissea e gli altri racconti delle vicende troiane avessero in mente un cavallo vero e proprio, e non una nave. Un vaso trovato nell’isola greca di Mykonos nel 1961 e datato al 670 a.C. – circa un secolo dopo la sua trascrizione – raffigura proprio gli eroi greci nascosti nella pancia del cavallo. L’ipotesi di Tiboni però non è campata per aria, e anche grazie al suo fascino potrebbe funzionare da stimolo per approfondire un tema che finora è stato un po’ lasciato da parte dagli studi omerici e filologici.