L’Italia ha fatto progressi sul divario di genere?
L'occupazione femminile sta crescendo ma altri indicatori peggiorano e nelle classifiche internazionali l'Italia ha perso parecchie posizioni
Lo scorso agosto l’ISTAT ha fatto sapere che l’occupazione femminile aveva raggiunto un record storico nel nostro paese: ogni cento donne, 48,8 avevano un lavoro, il livello più alto dal 1977, l’anno a cui risalgono le serie storiche comparabili dell’ISTAT. Il governo ha festeggiato questo risultato come un importante traguardo nel ridurre il divario di genere, cioè la differenza di condizioni economiche e opportunità tra maschi e femmine. I critici, però, hanno notato due aspetti controversi di questo dato.
Il primo: l’aumento dell’occupazione femminile sembra essere per buona parte un risultato della riforma Fornero (che ha allungato molto l’età pensionabile delle donne). Il secondo: l’Italia resta comunque tra i paesi messi peggio in Europa, dove l’occupazione femminile è in media del 65 per cento. Una serie di rapporti e articoli usciti nelle ultime settimane sembra dare in parte ragione a queste critiche: negli ultimi anni l’Italia non ha fatto molti progressi per ridurre il divario di genere e, in alcuni indicatori, è addirittura tornata indietro.
Lo scorso 2 novembre il World Economic Forum, la fondazione che organizza il Forum di Davos in Svizzera, ha pubblicato il rapporto “The Global Gender Gap Report 2017“, in cui ogni anno vengono misurati il livello di diseguaglianza di genere in settori come lavoro, politica, salute e istruzione. Il dato più preoccupante nel rapporto è che l’Italia figura nella classifica generale all’82° posto su 144 nazioni; dieci anni fa, quando nel 2006 venne pubblicato il primo report, l’Italia era al 77°. Nella classifica generale l’Italia è dietro paesi come lo Zimbabwe, El Salvador e il Vietnam. Va ancora peggio nella classifica sulle opportunità economiche lavorative: dieci anni fa l’Italia era all’87° posto, mentre oggi è al 118°. In questa classifica l’Italia è, come punteggio, più vicina all’Arabia Saudita (uno degli ultimi al 140° posto) che alla Germania (43°).
In un articolo pubblicato oggi su laVoce.info, Alessandra Casarico e Paola Profeta, professoresse dell’Università Bocconi, hanno commentato così i dati del rapporto:
I progressi sicuramente significativi della presenza femminile nelle posizioni di vertice delle grandi aziende – i dati Eurostat ci dicono che la percentuale di donne nelle grandi imprese quotate supera il 30 per cento, quasi 9 punti percentuali in più rispetto alla media dell’Europa a 28 – non si accompagnano ad avanzamenti in nessuna delle altre dimensioni, sia nel lavoro che nella politica. I dati più recenti dell’Istat indicano che nel 2017 l’occupazione femminile ha raggiunto il 49,1 per cento, il livello più alto dal 1977. Ma l’Italia continua a registrare l’andamento peggiore tra i paesi europei, Grecia esclusa. Rimangono le profonde differenze geografiche: nel 2017 il tasso di occupazione è 59,4 per cento al Nord e 32,3 per cento al Sud.
Secondo Casarico e Profeta questi dati dovrebbero preoccuparci «perché, come ci ricorda in apertura il rapporto Ocse 2017, l’uguaglianza di genere non è unicamente un diritto umano fondamentale, ma è anche la pietra angolare di una economia prospera e moderna, che punta a una crescita sostenibile e inclusiva, in cui uomini e donne possono dare il loro pieno contributo a casa, sul lavoro e nella vita pubblica».
Casarico e Profeta indicano diverse strade che è possibile seguire per migliorare la situazione: aumentare l’offerta di asili nido, attuare una decontribuzione per le assunzioni femminili (simile a quella che è già stata attuata per i giovani) e aumentare i congedi di paternità. “Il coinvolgimento dei padri”, scrivono, “è un altro elemento cruciale, soprattutto in Italia dove osserviamo uno dei gap maggiori sul totale delle ore lavorate, a casa e sul mercato, con le donne che complessivamente lavorano più degli uomini”.
Del divario di genere nella politica e nella rappresentanza si è occupato invece un articolo pubblicato oggi da Repubblica in cui Luisa Grion ricorda le ragioni per cui l’Italia è ancora molto indietro nella classifica internazionale e ha perso posizioni proprio nel corso dell’ultimo anno. Il governo Renzi aveva 8 ministre su 16, mentre nel governo Gentiloni le ministre sono scese a 5 su 18. Nel nostro paese ci sono solo due donne presidenti di regione. Inoltre «la quota delle assessore supera il tetto del 35 per cento, ma la stragrande maggioranza delle incaricate si occupa di Affari sociali, Cultura e Lavoro: quando si tratta di controllare i cordoni della borsa (Bilancio) ecco che si scende rovinosamente al 15%». Tra gli organi di garanzia (come CONSOB, l’autorità di controllo della borsa) la presenza femminile è al 30 per cento: 13 donne su 42 componenti in totale (più o meno la stessa quota di ministre del governo Gentiloni). Una sola autorità, però, è guidata da una donna, il Garante per l’infanzia, presieduta da Filomena Albano. Repubblica nota anche che, per la prima volta nella storia del nostro paese, i segretari generali di Camera e Senato sono due donne: Lucia Pagano e Elisabetta Serafin.
Nel campo della politica, però, le cose stanno migliorando e diverse leggi sono state approvate per favorire la riduzione del divario. Dal 2012 numerose regioni e tutti i comuni con più di 5 mila abitanti hanno la doppia preferenza: alle elezioni è possibile scrivere fino a due nomi di candidati, a patto che siano un maschio e una femmina. Inoltre all’interno delle liste nessun sesso può occupare oltre il 60 per cento dei posti disponibili. I nomi nelle liste, infine, devono essere alternati per rendere più probabile un’elezione paritaria di candidati di entrambi i sessi. Sulle norme adottate per ridurre il divario, Repubblica ha intervistato Agnese Canevari, fondatrice dell’associazione “Pari o dispare“. Le norme, spiega Canevari, «hanno funzionato, ma ora serve un salto culturale nella gestione del potere. Avere più donne vuol dire garantirsi la capacità di leggere una realtà economica e sociale con occhi diversi. È vero che fino a quando nei partiti e in politica le forze si selezioneranno per cooptazione, difficilmente le cose cambieranno. Ma è inutile ruotarci attorno: sono le donne che devono decidersi a votare donna. Il potere va conquistato, nessuno è disposto a cederlo».
Aumento della presenza femminile nei consigli comunali (LaVoce.info)
Anche secondo Casarico e Profeta la legge 215/2012, quella che ha introdotto le preferenze di genere, è stata molto importante nella riduzione del divario e ha contribuito ad aumentare la presenza femminile negli organi rappresentativi degli enti locali. E questa maggiore presenza avrebbe a sua volta portato altri effetti positivi. «Il cambiamento nella composizione di genere dei consigli municipali ha anche comportato un impatto sulle policy che vengono decise a livello comunale, con un aumento della spesa pubblica destinata a istruzione e protezione dell’ambiente. Un’altra ragione per insistere su questa strada».