Forse ci eravamo sbagliati su John Kelly
Il capo dello staff di Donald Trump, un ex marine rispettato da tutti, è più simile a lui di quanto sembrasse
A luglio la nomina di John F. Kelly a capo dello staff del presidente americano Donald Trump era stata accolta con sollievo sia dai Repubblicani sia dei Democratici. Kelly è un ex generale dei marines molto rispettato per la sua esperienza e il suo pragmatismo. Nelle prime settimane da capo dello staff aveva cercato di mettere ordine nell’amministrazione più caotica e disorganizzata degli ultimi decenni, ottenendo anche le dimissioni di alcune figure legate all’estrema destra come Steve Bannon. I giornali americani avevano parlato bene dei suoi sforzi, descrivendoli come un tentativo di arginare i peggiori impulsi di Trump. Dopo alcune recenti dichiarazioni, però, l’immagine di Kelly è cambiata, e in molti si stanno chiedendo se in realtà sia più vicino a Trump di quanto si immaginasse all’inizio.
Tutto è iniziato giovedì scorso, quando Kelly è comparso un po’ a sorpresa nella sala stampa della Casa Bianca per commentare una polemica che andava avanti da giorni. Una deputata Democratica, Frederica Wilson, aveva detto di avere assistito alla telefonata che Trump aveva fatto a Myeshia Johnson, la moglie di un soldato americano ucciso in Niger. Wilson aveva raccontato che Trump era stato insensibile, e che parlando con Johnson le aveva detto che suo marito «sapeva cosa comportava il suo lavoro». Johnson aveva poi confermato questa versione. Nel suo discorso ai giornalisti Kelly ha difeso Trump, ma soprattutto ha attaccato duramente Wilson.
Kelly l’ha definita “una scatola vuota” e l’ha criticata per un discorso del 2015 in cui – secondo lui – si è ventata di aver trovato i fondi per un nuovo centro dell’FBI a Miami, in Florida, grazie al suo rapporto con l’allora presidente Obama. Il problema è che nell’anno in cui furono trovati i soldi per il centro in questione, nel 2009, Wilson non era ancora stata eletta al Congresso. Nel suo discorso del 2015, inoltre, non citava mai il nome di Obama, ma si limitava a ricordare i suoi sforzi per intitolare il centro a due agenti dell’FBI morti in servizio. Diversi giornalisti americani hanno fatto notare che nella sua conferenza stampa Kelly ha usato una strategia tipica di Trump: attaccare i propri avversari sul piano personale con accuse molto gravi ma poco aderenti alla realtà.
Il discorso di Kelly aveva poi un tono sgradevolmente paternalistico: a un certo punto ha rimproverato i giornalisti accusandoli di non sapere come funziona l’ambiente militare americano, che produce «il migliore 1 per cento di noi». Kelly si è anche lamentato perché in passato, secondo lui, c’era più rispetto per la “sacralità” delle donne, della religione, e della dignità della vita. «La conferenza stampa di Kelly ha mostrato un assaggio di come funzionerebbe un colpo di stato militare in questo paese», ha commentato la giornalista Masha Gessen sul New Yorker.
Kelly poi condivide con Trump una posizione molto dura sul tema dell’immigrazione. Nei mesi in cui è stato Segretario della Sicurezza interna, appena prima di diventare capo dello staff, ha aumentato le deportazioni di immigrati entrati illegalmente negli Stati Uniti, colpendo anche chi non aveva precedenti penali. In estate, quando alla Casa Bianca si discuteva del numero massimo di rifugiati da accogliere nel paese, Kelly aveva detto che secondo lui la quota ideale doveva essere compresa fra zero e uno (alla fine l’amministrazione Trump ha deciso di accoglierne 45mila, meno della metà rispetto al 2016).
«Il punto è capire chi è davvero John Kelly», ha spiegato al New York Times l’ex segretario alla Difesa Leon Panetta, che ai tempi dell’amministrazione Obama ha collaborato con Kelly. «Prima di tutto e sopra ogni altra cosa è un marine. Inoltre è nato e cresciuto a Boston [in una famiglia povera e conservatrice]. Metti insieme queste due cose e capisci che condivide alcuni dei valori che Trump sta cercando di rappresentare».