Non c’è pulizia etnica contro i rohingya, si dice ovunque in Myanmar
La maggioranza dei birmani crede ciecamente alla propaganda del governo, nonostante le testimonianze di mesi di violenze
Da agosto a oggi più di 600mila persone di etnia rohingya sono fuggite dal Myanmar (o Birmania) a causa degli scontri tra esercito birmano e gruppi ribelli che appartengono alla minoranza rohingya. Le Nazioni Unite e altre organizzazioni internazionali hanno criticato molto le violenze compiute dai soldati birmani – che per esempio hanno bruciato sistematicamente le case di molti rohingya, costringendoli a scappare – e hanno descritto la fuga dei rohingya come il più rapido spostamento di un gruppo etnico dai tempi del genocidio del Ruanda del 1994. Nonostante le prove raccolte – immagini satellitari, fotografie, video, testimonianze – in Myanmar si continua a vivere in una realtà parallela: c’è la convinzione diffusa che non sia in corso alcuna pulizia etnica nei confronti dei rohingya.
In Myanmar i rohingya non vengono considerati veri cittadini e sono perseguitati da decenni. Sono musulmani, e sono una minoranza etnica e religiosa: la maggioranza dei birmani è infatti di etnia bamar (70 per cento) e di religione buddista (90 per cento). I rohingya vivono per lo più nello stato del Rakhine, nell’ovest del paese, vicino al Bangladesh. Molti politici birmani – ma anche la stragrande maggioranza delle persone comuni – sostengono che i rohingya stiano cercando di sfruttare il fatto di essere musulmani per ottenere le simpatie e l’appoggio della comunità internazionale.
Il conflitto tra i rohingya e gli altri abitanti dello stato del Rakhine cominciò durante la Seconda guerra mondiale, quando i rohingya si misero dalla parte dei britannici e non dei giapponesi, come invece fecero i birmani buddisti. Nel corso degli anni subirono le più diverse discriminazioni, alcune legalizzate dai governi birmani. Nel 1982, per esempio, fu tolta loro la cittadinanza birmana, perché il governo li accusava di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui il Myanmar perse l’indipendenza e divenne una colonia britannica.
I birmani buddisti si riferiscono a loro chiamandoli non rohingya ma bengalesi, sottintendendo che siano originari del Bangladesh. Oppure li chiamano “kalar”, un epiteto usato per chiamare i musulmani in generale. Solo il 4 per cento della popolazione del Myanmar è musulmano: dal 2015 non c’è nessun musulmano in Parlamento, per la prima volta dall’indipendenza del paese.
Sui social network circolano alcuni video in cui monaci buddisti estremisti chiamano i rohingya “serpenti” e dicono che sono “peggio dei cani”. Molte persone sostengono anche che i gruppi umanitari internazionali siano collusi con i ribelli, cioè i membri dell’Esercito per la salvezza dei rohingya nel Rakhine (gruppo più noto con la sigla inglese ARSA), che il governo birmano considera un’organizzazione terroristica. Queste informazioni circolano molto rapidamente anche perché in Myanmar – come nel resto del mondo – sempre più persone si informano su Facebook. Non è da molto che nel paese sono diffusi gli smartphone, ma oggi circa il 90 per cento della popolazione ne ha uno e molti hanno Facebook come unica fonte di notizie (dove notoriamente circolano anche molte notizie false e bufale). Tra le cose molto condivise su Facebook ultimamente c’è un post di un portavoce di Aung San Suu Kyi che dice che in un campo di addestramento dei ribelli rohingya sono stati trovati dei biscotti del Programma alimentare mondiale della Nazioni Unite. L’ONU ha definito il post «irresponsabile», negando che fosse un’informazione vera.
A dare sostegno ai pregiudizi contro i rohingya c’è lo stesso governo birmano. Il Myanmar ha infatti proibito alle organizzazioni umanitarie di soccorrere i 120mila rohingya che vivono nei campi profughi nel centro del Rakhine e sostiene che siano i ribelli rohingya e non l’esercito a distruggere e bruciare i villaggi dell’area. Il ministro del welfare birmano, Win Myat Aye, ha detto al New York Times che sono i «musulmani che uccidono altri musulmani». Quando gli è stato chiesto cosa ne pensasse delle testimonianze che invece dicono che sono i militari a perseguitare i rohingya, ha detto che per ora il governo del Myanmar non ha mandato nessuno a fare domande ai rohingya fuggiti in Bangladesh, anche se ha ringraziato i giornalisti per aver proposto l’idea.
La distinzione tra i birmani buddisti e i rohingya viene fatta un po’ da tutti, anche da quei politici che per anni si sono impegnati nella difesa dei diritti umani e contro il vecchio regime militare.
U Ko Ko Gyi, un attivista che ha passato 17 anni in prigione, ha detto al New York Times: «Abbiamo avuto dei difensori dei diritti umani per molti anni e sofferto molto a lungo ma su questa questione siamo uniti perché riguarda la sicurezza nazionale. Siamo un piccolo paese tra India e Cina e il DNA dei nostri antenati ci spinge a lottare per sopravvivere. Se voi occidentali ci criticherete troppo, ci spingerete nelle braccia di Cina e Russia». Il mese scorso sono stati questi due paesi membri del Consiglio di Sicurezza a respingere la proposta ONU che avrebbe dovuto condannare l’esercito birmano per quello che sta succedendo in Myanmar.
Non è così per tutti, comunque. Alcuni birmani hanno provato a soccorrere i rohingya in difficoltà, o comunque ad avere relazioni normali con loro: il New York Times fa l’esempio di un guidatore di risciò che ha accettato di portare del cibo in un campo profughi. Altri birmani buddisti hanno picchiato e tagliato i capelli a sua moglie come gesto di ritorsione, chiamandola «traditrice nazionale». L’uomo ha detto di non rimpiangere ciò che ha fatto perché i rohingya «sono umani, devono mangiare come noi».