Dizzy Gillespie voleva fare tutto
Uno dei più grandi trombettisti jazz di sempre nacque 100 anni fa, e «sembrò riassumere tutte le possibilità dell'arte popolare americana»
di Stefano Vizio – @stefanovizio
Il trombettista Dizzy Gillespie non è passato alla storia come il più geniale dei jazzisti che inventarono il bebop, merito che venne attribuito più al pianista Thelonious Monk; né è ritenuto il più virtuoso, come solitamente viene descritto il sassofonista Charlie Parker. La sua attitudine da intrattenitore, il suo talento per farsi amare da chiunque non appena illuminato da un riflettore, le sue guance rigonfie che lo facevano sembrare una caricatura, le trombe storte, lo hanno reso un personaggio per certi versi meno poetico e drammatico di gente come Miles Davis o Bud Powell. Ma queste stesse caratteristiche lo resero una figura unica e completa come nessun’altra: come scrisse il New York Times nel suo necrologio, Gillespie «sembrò riassumere tutte le possibilità dell’arte popolare americana».
Fu una figura chiave in quel movimento negli anni Quaranta che si mise in testa di sostituire l’ormai stanca musica swing con un tipo di jazz più attuale, emancipato, più adatto alle esigenze e alle esperienze degli afroamericani delle grandi città americane. Anni dopo, non essendogli bastato aver contribuito a cambiare la musica una volta, Gillespie lo fece di nuovo, diventando uno dei primi a mischiare il jazz con i suoni e i ritmi della musica africana e latina. Nacque il 21 ottobre 1917 a Cheraw, South Carolina, e oggi avrebbe compiuto 100 anni.
Dizzy Gillespie e Charlie Parker insieme al pianista Dick Hyman, al bassista Sandy Block e al batterista Charlie Smith suonano “Hot House”, uno standard composto da Tadd Dameron sulla stessa struttura armonica di “What Is This Thing Called Love?”. È l’unico filmato conosciuto in cui si veda Parker suonare dal vivo: fu registrato il 24 febbraio 1952 per il DuMont Television Network, in occasione di un premio assegnato dalla rivista Down Beat.
Gillespie, che quando nacque si chiamava John Birks, fu l’ultimo dei nove figli di James e Lottie Gillespie. «Tutte le domeniche mattina papà ci prendeva a cinghiate», ha scritto nella sua autobiografia To be or not to bop. Ma suo padre, che secondo Gillespie faceva così per temprarlo, era anche il direttore di un’orchestra locale, e questo fece sì che Dizzy cominciò molto piccolo ad avere a che fare con strumenti musicali. Studiò la tromba da autodidatta, prendendo quel vizio di gonfiare a sproposito le guance quando suonava, anche se non ce n’era proprio bisogno. Se lo sarebbe portato dietro tutta la vita, e sarebbe diventato uno dei suoi tratti più distintivi.
A 16 anni si spostò con la famiglia a Philadelphia, e iniziò a fare diversi lavori. Fu licenziato dalla band del pianista Bill Doggett perché non sapeva leggere bene la musica sugli spartiti, e dopo esperienze in altre orchestre nel 1937 arrivò a quella di Teddy Hill, nella quale si distinse per la sua capacità di suonare come il precedente trombettista Roy Eldridge, tra i più famosi musicisti di swing di sempre, che con i suoi virtuosismi e le sue sperimentazioni armoniche per molti versi anticipò il bebop.
Fu probabilmente proprio Hill a soprannominarlo Dizzy, cioè “sciocco” ma anche “matto”, per via del suo abbigliamento eccentrico e il suo umorismo. Durante uno dei suoi primi tour, Gillespie conobbe Lorraine Willis, una ballerina che lavorava tra Washington DC, Baltimora e Philadelphia: si sposarono e sarebbero rimasti insieme fino alla morte di lui, nel 1993.
Gillespie si fece notare in fretta nel giro: non solo per il suo comportamento ribelle e scanzonato, ma anche per il suo talento. Presto cominciò a registrare con gente famosa come Coleman Hawkins e Benny Carter, e finì nell’orchestra di Cab Calloway, leggendario cantante swing la cui notorietà attuale è legata anche all’apparizione nel film Blues Brothers, nel quale cantò la sua canzone più famosa, “Minnie the Moocher”. Gli anni con Calloway furono fondamentali per la carriera di Gillespie: sia perché durante un concerto a Kansas City, nel 1940, conobbe Charlie Parker, sia perché insieme ad altri membri della band, come il bassista Milt Hinton e il chitarrista Danny Barker, e soprattutto insieme allo stesso Parker, cominciò a sperimentare cose nuove che uscivano dai confini dello swing per avventurarsi in quelli di un genere radicalmente diverso di jazz, che in realtà ancora non esisteva.
Uno degli aspetti fondamentali di queste sperimentazioni fu la cosiddetta “sostituzione armonica”, una tecnica che, semplificando, consiste nel sostituire un accordo di una canzone con un altro che ha delle caratteristiche simili, ma che suoni in modo diverso. Gillespie e gli altri musicisti che stavano inventando il bebop presero gli standard che le big band americane suonavano da anni sempre uguali e iniziarono a cambiarne gli accordi, facendoli suonare in modo nuovo e soprattutto ogni volta diverso. Gli standard, cioè le canzoni classiche del repertorio jazz e swing, cominciarono ad assumere una forma nuova ogni sera. Le sostituzioni di accordi creavano infinite possibilità per l’improvvisazione, che dal bebop in poi sarebbe diventato l’aspetto centrale del jazz moderno.
Uno dei migliori esempi della sostituzione armonica alla base del bebop e del jazz moderno è “Groovin’ High”, uno standard composto da Gillespie nel 1945 sulla base di “Whispering”, standard del 1920 di John Schonberger. La struttura del brano originale si basa su accordi che durano due battute: Gillespie trasformò la struttura armonica aggiungendo un accordo, e facendo sviluppare la progressione su tre accordi in quattro battute. Il primo era mantenuto per due battute, e poi ce n’era uno per battuta: il secondo e il terzo erano collegati da una progressione armonica particolare (conosciuta nel gergo musicale come II-V) il cui suono è alla base di buona parte del jazz mai suonato.
Il risultato, in ogni caso, era un brano molto più movimentato e vario. Lo si sente facendo partire i due standard dopo l’introduzione: al secondo 0:05 del primo video, e a 0:08 del secondo. Oltre che per le sostituzioni armoniche, “Groovin High” fu influente anche per il modo in cui le complesse parti dei singoli strumenti furono arrangiate per suonare insieme, per il virtuosismo e lo stile innovativo degli assoli di Parker e Gillespie, e per la coda finale, che sarebbe diventata molto imitata.
Nel 1941 Gillespie dovette lasciare l’orchestra di Calloway: il suo atteggiamento ribelle e i suoi virtuosismi avevano creato molte tensioni tra i due, che culminarono quando durante un concerto allo State Theater di Hartford, Connecticut, Calloway vide una pallina di carta volare sul palco. Diede la colpa a Gillespie, che negò tutto: i due cominciarono ad azzuffarsi, e Gillespie infilzò un coltello nel sedere di Calloway, procurandogli una ferita che avrebbe richiesto dieci punti.
Ormai però Gillespie era avviato per la sua strada: per un po’ suonò nella band di Billy Eckstine, dove si ricongiunse con Parker, e nella prima metà degli anni Quaranta ebbe a che fare con tutti i nomi più grossi del jazz, da Ella Fitzgerald a Duke Ellington. Registrò alcuni dei suoi standard più famosi, da “I Can’t Get Started” a “Salt Peanuts” a “Night in Tunisia”. Insieme agli altri inventori del bebop, passò la maggior parte delle sue nottate nei locali degli Stati Uniti, e in special modo in quelli della 52esima strada di Manhattan, a improvvisare in modi che nessun altro aveva fatto prima, producendo una quantità di note spropositata, passando repentinamente da registri alti a registri bassi e spesso con fraseggi apparentemente dissonanti rispetto all’accompagnamento suonato dagli altri musicisti, ma le cui note erano sempre padroneggiate con una cura maniacale. Puntualmente, le note degli assoli passavano dall’essere destabilizzanti all’essere estremamente musicali, e infine tornavano al tema dello standard che la band stava suonando, senza che lo spettatore capisse bene cosa fosse successo.
Gillespie mise insieme molte band, ma fu con Parker e con il pianista Bud Powell, il bassista Ray Brown e il batterista Max Roach che fece probabilmente le sue cose migliori. Nel 1945 formò una big band chiamata prima The Hepsations e poi Dizzy Gillespie Orchestra, con la quale fece l’altra sua rivoluzione, quella del jazz afro-cubano. Conobbe il percussionista cubano Chano Pozo nel 1947, e insieme a lui compose le prime canzoni che mischiarono le sofisticatezze armoniche del bebop ai ritmi latini e africani, che avrebbero originato un fortunato e prolifico genere musicale.
Negli anni successivi Gillespie passò la maggior parte del suo tempo a dirigere la sua orchestra, trovandosi estremamente a suo agio a fare il cantante, il ballerino, il presentatore, il conduttore, il solista, il comico, e tutte le altre che faceva per intrattenere il pubblico mentre era sul palco. Secondo molti fu l’ultimo, vero leader di big band, concludendo una tradizione portata avanti da alcuni dei nomi più importanti della musica del Novecento, da Duke Ellington a Count Basie. I suoi spettacoli diventarono famosi anche tra i non appassionati di jazz, e lui diventò una specie di icona di stile, con la sua faccia simpatica e il suo stile eccentrico.
All’inizio degli anni Cinquanta le big band passarono di moda, e Gillespie tornò a dedicarsi ai concerti e alle registrazioni in gruppi più piccoli. Il 15 maggio 1953 si riunì insieme a Parker, Powell, Roach e al grande bassista Charles Mingus per quello che è oggi uno dei concerti più famosi della storia del jazz, alla Massey Hall di Toronto. Il concerto ebbe una genesi sfortunata e travagliata: avvenne in una sala mezza vuota, perché in contemporanea con un attesissimo incontro di boxe, e Parker dovette suonare con un sax di plastica perché aveva dato in pegno il suo per comprarsi la droga. Ma fu l’unica occasione in cui i cinque, tra i più grandi jazzisti di sempre, furono registrati insieme, e anche l’ultima registrazione di Gillespie con Parker, che sarebbe morto due anni dopo.
Fu in quell’anno che durante una festa allo Snookie di Manhattan due ballerini inciamparono sulla sua tromba e la fecero cadere. La campana, cioè l’estremità dalla quale esce il suono, rimase storta di 45 gradi. Per non rovinare il morale della festa, e per fare il simpatico, Gillespie la provò e disse che suonava perfino meglio. Poi se ne convinse, oppure la trovò una gag divertente, e cominciò a farsele costruire fatte così.
Nel 1964, per scherzo, disse di voler diventare presidente degli Stati Uniti. Giurò che se fosse stato eletto avrebbe rinominato la Casa Bianca “Blues House”, e avrebbe nominato Duke Ellington segretario di Stato, Miles Davis direttore della CIA, Max Roach segretario della Difesa, Charles Mingus segretario della Pace, Ray Charles capo della libreria del Congresso, Louis Armstrong segretario dell’Agricoltura, Mary Lou Williams ambasciatrice al Vaticano, Thelonious Monk ambasciatore itinerante, e Malcolm X procuratore generale.
Negli anni Sessanta e Settanta Gillespie continuò a fare moltissimi concerti, in formazioni ridotte, elettriche, acustiche, in big band, da solo. Formò nuove orchestre, vinse Grammy, comparve in televisione, fece l’ospite in grandi concerti, pubblicò autobiografie, suonò bebop, suonò musica latina. Morì il 6 gennaio 1993 a Englewood, New Jersey, dove si era trasferito da tempo. Si era ammalato di cancro al pancreas, e aveva 75 anni.