In Veneto lavorano tutti
Nella regione dove domenica si voterà il referendum sull'autonomia, l'occupazione è tornata ai livelli di dieci anni fa: la crisi però ha distrutto il mito del "modello Nord-est"
di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca
«Le crisi aziendali qui si contano sulle dita di una mano». È un tiepido pomeriggio di ottobre e Maurizio Tolotto, con una borsa di documenti sotto il braccio, parla al Post davanti allo storico Palazzo del Podestà di Verona, dove fu ospitato Dante Alighieri – “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui”. Oggi nell’edificio ha sede la prefettura. Dall’altro lato della strada ci sono sessanta persone con le bandiere dei principali sindacati. Tolotto è un operatore CISL, un esperto di trattative che per conto dei sindacati segue le aziende e nei momenti di difficoltà cerca di spuntare il trattamento migliore per i dipendenti. Tra poco incontrerà i rappresentanti dei Ronca e i dei Turco, le due famiglie rivali che controllano la società dolciaria Melegatti. Quella che dovrà cercare di risolvere oggi non è una crisi come tutte le altre: è una faccenda delicata, profondamente legata alla storia e alla tradizione della città di Verona.
Fu Domenico Melegatti, fondatore dell’omonima società, a inventare il pandoro, un secolo fa; e Melegatti fu la prima società a inaugurare la moderna tradizione industriale dolciaria veronese. Oggi la provincia di Verona domina il settore dei dolci da ricorrenza – panettoni, pandori e colombe pasquali – che vale quasi un miliardo di euro e che dà lavoro a migliaia di famiglie. Che il panettone “milanese” più venduto in Italia sia prodotto a Verona è una piccola vittoria culturale per una città, e una regione, che hanno sempre guardato a Milano e alla Lombardia con l’invidia e il risentimento di un fratello minore. Dopo un secolo di storia di successo, Melegatti rischia di fallire. Settanta operai da agosto non ricevono lo stipendio e trecento dipendenti stagionali che aspettavano di essere chiamati per l’inizio del periodo natalizio sono rimasti a casa.
Tutti gli operai che presidiano l’ingresso della prefettura sanno che tra una settimana si voterà per il referendum sull’autonomia del Veneto e quasi tutti dicono che andranno a votare. Nessuno, però, dice come voterà: «Cosa ho votato non l’ho mai detto neanche ai miei genitori», dice Gianluca, che ha iniziato a lavorare per Melegatti nel 1996 come stagionale per poi entrare a tempo pieno nel 1998. Oggi è uno dei quattordici capireparto dello stabilimento principale di San Giovanni Lupatoto, quello che sforna i pandori. Gianluca, però, fa capire chiaramente da che parte sta: «Sono nato e cresciuto a Verona, cosa dovrei votare?». Sembra già conoscere la risposta quando domanda: «Sbaglio o del referendum non ne avete parlato tanto in tv?».
In effetti, fuori da Lombardia e Veneto il referendum sull’autonomia non ha suscitato grande interesse. In parte perché non avrà particolari conseguenze: chi voterà sì vuole che la regione faccia ricorso all’articolo 116 della Costituzione, che permette a una regione con il bilancio in ordine di chiedere maggiore autonomia. Ma il governo non è obbligato a concederla e, soprattutto, non è necessario un referendum per chiederla: per questo molti considerano il referendum poco più di una prova di forza all’interno della Lega Nord. Da un lato i presidenti di regione, Roberto Maroni in Lombardia e Luca Zaia in Veneto, dall’altro il segretario del partito Matteo Salvini, che da anni tenta di far uscire la Lega dal recinto del nord e renderla interessante anche per gli elettori del centro-sud. Se ci sarà una grande affluenza, Maroni e Zaia potranno riportare all’attenzione del dibattito pubblico il tema dell’autonomia del Nord, che il segretario invece vuole lasciarsi dietro. Maroni e Zaia si stanno spendendo – e stanno spendendo – molto per raggiungere questo obiettivo. Anche se non sono state diffuse cifre ufficiali, i giornali parlano di una spesa complessiva di 14 milioni di euro in Veneto per la promozione e l’organizzazione del referendum. «Se non dovesse raggiungere il 50 per cento dei votanti sarebbe una bomba che gli scoppia tra le mani», dice Filiberto Zovico riguardo Luca Zaia. Zovico è il fondatore del gruppo Post Editori, che possiede giornali online come VeneziaPost e diversi portali di informazioni per le imprese.
Non tutti i veneti, però, sono convinti di andare a votare quanto lo sono gli operai Melegatti. Secondo un sondaggio realizzato a fine settembre da SWG, il 53 per cento dei veneti ritiene che il referendum sia inutile e che sarebbe stato meglio trattare l’autonomia direttamente con il governo. Quasi altrettanti ritengono che i soldi per la consultazione siano stati mal spesi. Ma il risultato più preoccupante per Zaia è quello secondo cui solo la metà degli intervistati dice che andrà a votare. «Non c’è stata una rivolta popolare, le piazze sono vuote, i convegni deserti». Mentre parla con il Post, Zovico sta viaggiando sull’autostrada tra Padova e Verona, lungo la cintura ininterrotta di capannoni che costituisce la spina dorsale dell’operoso Nord-est.
La ragione per cui i veneti sembrano così freddi sulla questione dell’autonomia è che non tutti sono nelle condizioni degli operai Melegatti: appesi a difficili trattative aziendali, con un futuro incerto e la prospettiva di diventare disoccupati. Se l’autonomia dovrebbe essere una risposta alla crisi che opprime il Veneto, bisogna dire che quella crisi sembra non ci sia più: e se c’è ancora, da tempo ha come minimo allentato la sua morsa. Verona è una delle quattro province con il più basso tasso di disoccupazione in Italia: circa il 5 per cento, un livello poco distante dalla piena occupazione. La disoccupazione giovanile è meno della metà di quella nazionale. Il resto del Veneto non è messo molto peggio: nel 2017 il PIL regionale dovrebbe crescere del 4 per cento, cioè il triplo della media italiana. Già oggi in alcune province il numero degli occupati ha superato quello del 2007.
La ripresa, però, non è avvenuta senza costi. Secondo i dati della CGIA di Mestre, tra il 2008 e il 2016 hanno chiuso quasi 15 mila piccole aziende artigiane, le imprese che costituivano il tessuto produttivo del Veneto e di quella cosa che dai giornali era stata chiamata “locomotiva Nord-est”. Gran parte dei posti di lavoro che sono stati recuperati nell’ultimo anno sono precari e part-time. I giovani di Verona trovano facilmente lavoro nelle fiere, nelle industrie stagionali, nel turismo, ma molti di loro sono costretti a cambiare anche due o tre lavori in un anno. I sindacati sperano che con il tempo questi nuovi posti di lavoro vengano regolarizzati, ma per il momento i giovani veneti – come quelli del resto d’Italia – sono i primi dal Dopoguerra ad avere la prospettiva di un futuro più povero e precario di quello dei loro genitori.
Un’altra delle ferite lasciate dalla crisi è più difficile da rilevare con gli indicatori economici, perché è una ferita culturale. Come ha scritto il giornalista Marco Alfieri, esperto conoscitore del Veneto: «A partire dal nord e poi in tutta Italia, come una valanga, c’è stato un quindicennio (1995-2011) in cui il territorio è stato glorificato in antitesi al centralismo e a “Roma ladrona”. Tutto ciò che era grande, nazionale, pubblico, politicizzato, andava rottamato a vantaggio del piccolo, del privato e dell’autonomismo». Per una generazione i veneti sono stati cresciuti nel mito del “modello Nord-est”: l’idea che il Veneto, insieme a Friuli e Trentino, avesse trovato una via propria e originale allo sviluppo economico.
Il “modello” consisteva nella combinazione di piccole e piccolissime imprese riunite in distretti produttivi, sostenuti da una miriade di piccole o medie banche del territorio, in cui il denaro veniva prestato sulla base di rapporti fiduciari. A sovrintendere a questo armonioso sviluppo c’era, nella mente dei sostenitori del modello, una classe politica pragmatica e più onesta e competente che nel resto d’Italia. «Persino a sinistra attecchì questa vulgata», continua Alfieri, «basti ricordare il partito dei sindaci, le riforme Bassanini, la finanza locale e la riforma del Titolo V della Costituzione». Fu proprio con la riforma del Titolo V nel 2011 che venne introdotta la modifica all’articolo 116 che ha permesso il referendum di domenica prossima. L’espressione politica di questo senso di superiorità è stata l’autonomismo, una versione istituzionale e accettabile dell’indipendentismo. Era l’idea che lasciando gestire il Veneto ai politici e agli imprenditori locali, invece che agli altri, le cose non avrebbero potuto che migliorare.
Messo di fronte alla prima prova, però, il modello non ha retto. «Se mai è stato un vero modello, quello veneto è uscito distrutto dalla crisi», spiega Paolo Gubitta, docente di Organizzazione aziendale all’università di Padova e direttore scientifico dell’area
imprenditorialità della CUOA Business School. «”Piccolo è bello” era lo slogan degli operai che si sono messi in proprio, dei mezzadri che hanno creato le prime aziende», spiega Gubitta, «è la generazione degli imprenditori negli anni Sessanta e Settanta, che dobbiamo ringraziare perché ha messo le basi del nostro attuale benessere. Ma quel modello con al centro la figura dell’imprenditore e della sua famiglia è diventato obsoleto». Gubitta con altri due docenti (Alessandra Tognazzo e Saverio Favaron) ha realizzato una ricerca sulle aziende che sono uscite più forti di prima dalla crisi, pubblicata sulla rivista scientifica Entrepreneurship and Regional Development. «Sono sopravvissute le medie imprese, quelle che hanno la flessibilità delle più piccole, ma i vantaggi delle economie di scala delle più grandi. Sono imprese con un fatturato oltre i 100 milioni di euro. Sono managerializzate: non c’è più l’imprenditore da solo al comando. Sono andate all’estero o si sono agganciate alla catena di fornitura globale». Ma soprattutto, chi è sopravvissuto non ha mai avuto nulla a che fare con il sistema locale e clientelare che unisce banche, politica locale e, spesso, associazioni di categoria, che oltre a “piccolo è bello” sostenevano anche l’importanza dell’autonomismo. «Questi nuovi imprenditori si sono accreditati e legittimati andando sul mercato», spiega Gubitta. Chi è sopravvissuto alla crisi è, in un certo senso, l’opposto del prototipo di imprenditore veneto immaginato negli anni Novanta dai sostenitori del “modello veneto”: ha 40-50 anni, è laureato, in genere a Milano, non parla dialetto se non quando è in paese, ha viaggiato e conosce perfettamente l’inglese.
Davanti alla prefettura il sole sta iniziando a tramontare quando gli operai Melegatti iniziano ad applaudire. In fondo alla via è arrivato a piedi Michele Turco, con suo figlio e il suo avvocato. Turco è il principale rappresentante degli azionisti di minoranza della Melegatti. «I Turco hanno detto di avere i soldi per un aumento di capitale», spiega Tolotto, «se riuscissero a convincere gli azionisti di maggioranza, gli impianti potrebbero ripartire anche subito». Ma gli azionisti di maggioranza non vogliono sentirne parlare. Mentre gli operai applaudono, Turco sembra a disagio. Un giornalista di una tv locale, Tele Arena, lo incalza chiedendogli se è vero che è pronto a investire il denaro necessario a rimettere in piedi l’azienda. Gli domanda di dare una cifra. Turco preferisce non rispondere e lascia parlare il suo avvocato: «Prima di tutto dobbiamo potere entrare in azienda, vedere i libri, fare le nostre valutazioni». Gli accompagnatori di Turco chiudono la conversazione dicendo che è arrivato il momento di incontrare il prefetto. Difficilmente sarà un incontro risolutivo: pochi minuti prima la rappresentante della famiglia rivale ha fatto sapere che non potrà partecipare, per motivi di salute. Il suo palazzo si trova a poche centinaia di metri dalla prefettura. Affaccia su una delle vie più rinomate della città, Corso Porta Borsari. La facciata di marmo bianco in stile veneziano è decorata con le statue di due pandori in pietra.
La crisi di Melegatti è andata di pari passo con lo scontro decennale tra le due famiglie che controllano il suo capitale azionario. Da un lato i Ronca, che hanno la maggioranza delle azioni, dall’altro i Turco, che oggi dicono di avere i capitali per salvare la società. A guidare l’azienda oggi è Emanuela Perazzoli, vedova dell’ultimo Ronca a ricoprire l’incarico di amministratore delegato. Perazzoli non è molto amata dagli operai. La descrivono come un’accentratrice, che dopo la morte del marito ha assunto direttamente la carica di amministratore delegato e si è rifiutata di mettersi nelle mani di manager professionisti: per questo avrebbe mancato tutte le opportunità di sviluppo del settore. Soltanto a febbraio Melegatti ha inaugurato uno stabilimento per la produzione dei cosiddetti “continuativi” cioè i dolci che si possono vendere tutto l’anno. Una scelta che i suoi concorrenti, Bauli, Paluani e Dal Colle, hanno fatto oramai dieci anni fa. Oggi Perazzoli è accusata di essere disposta a far fallire o svendere l’azienda piuttosto che passarne il controllo ai Turco. Il comunicato pubblicato tre ore dopo l’incontro si limita a rimandare il momento delle decisioni a quando le due famiglie si ritroveranno faccia a faccia.
Se la fiducia dei veneti negli imprenditori è stata messa alla prova dalla crisi, al resto della classe dirigente non è andata meglio. I banchieri, che proclamavano il primato del territorio, sono falliti e con loro hanno rischiato di fallire decine di migliaia di persone e di imprese. Ironicamente a salvarli è stato il governo di Roma, che ha speso cinque miliardi di euro per mettere al sicuro i soldi dei risparmiatori di Veneto Banca e Popolare di Vicenza, le due grandi banche entrate in crisi e i cui dirigenti rischiano di essere processati. Il conto del salvataggio delle banche venete per la fiscalità generale alla fine potrebbe salire fino a 17 miliardi di euro. È finita male anche per molti politici, alleati dei banchieri nelle fondazioni e nelle banche popolari. Giancarlo Galan, che ha governato il Veneto per 15 anni, ha patteggiato in un processo per corruzione e ha restituito 2,6 milioni di euro su 15 che era accusato di aver ottenuto illegalmente.
«Questo referendum arriva dopo il fallimento del Nord-est in quanto tale», dice Zovico, mentre la sua automobile ora costeggia il Lago di Garda, che segna il confine tra il Veneto e la Lombardia: «La crisi ha colpito tutti: piccoli imprenditori, politici, banche, fondazioni, associazioni di categoria. Hanno raccontato per anni la favola della “locomotiva Nord-est”, dell’autonomismo come soluzione a ogni problema. Trent’anni dopo non c’è un piano e non c’è un progetto, soltanto un referendum al quale faccio fatica a dire sì perché non ho capito che conseguenze avrà». La ripresa economica in corso nella regione appare quasi sorprendente di fronte a questo fallimento generale. Secondo Zovico è la prova che la ripresa è iniziata malgrado le classi dirigenti locali e non grazie a loro. La politica è stata lasciata indietro: «Questi anni di crisi ci hanno insegnato che la società veneta va avanti da sola». E lo fa nel bene, ma anche nel male. Il prossimo consiglio d’amministrazione di Melegatti, in cui le due famiglie arriveranno allo scontro finale, si svolgerà il 30 ottobre, una settimana dopo il referendum. Che i sì raggiungano o meno il 50 per cento, per gli operai di Melegatti non cambierà molto.