Il business degli sputi per il DNA
Ascesa, declino e rinascita di 23andMe: l'azienda da un miliardo di dollari proprietaria di una delle più grandi serie di dati genetici al mondo
Quando fondò 23andMe, Anne Wojcicki pensava che la sua azienda appena arrivata nella Silicon Valley avrebbe rivoluzionato il modo di fare ricerche sul DNA, offrendo a tutti l’opportunità di scoprire predisposizioni e fattori di rischio per malattie come il Parkinson, l’Alzheimer e il cancro. Mentre i primi kit venivano inviati in giro per il mondo per raccogliere i campioni di saliva e i giornali non parlavano d’altro, Wojcicki non immaginava che la sua azienda sarebbe finita nel mezzo di un duro contenzioso con le autorità sanitarie statunitensi, portandola al punto di rischiare il fallimento, prima di una rinascita che oggi sta portando 23andMe a essere uno dei più grandi esperimenti genetici su larga scala da parte di un privato al mondo. Superati anni molto difficili, ora 23andMe è valutata intorno al miliardo di dollari ed è considerata un “unicorno” della Silicon Valley: una società con grandi potenzialità sul mercato, accudita con cura come qualcosa di raro e prezioso dagli investitori. Gli affari hanno ripreso ad andare bene, ma il futuro di 23andMe resta incerto e molti ricercatori sono critici nei confronti dell’approccio seguito per raccogliere e analizzare il DNA di milioni di persone.
La storia di 23andMe racconta più di altre le evoluzioni degli ultimi anni nel settore delle aziende che si occupano di salute, soprattutto negli Stati Uniti, e che hanno visto nelle evoluzioni tecnologiche offerte da Internet un’opportunità per ingrandirsi, raccogliere enormi quantità di dati e usarle su più fronti, talvolta in modo spregiudicato e sfruttando le aree grigie lasciate da leggi ormai datate. 23andMe è interessante anche per la presenza di Anne Wojcicki, californiana di 44 anni, e tra le poche donne ad avere un ruolo da amministratore delegato nella Silicon Valley (sua sorella, Susan, è CEO di YouTube), dove le disuguaglianze di genere nelle opportunità lavorative continuano a essere un serio problema. Wojcicki dice di essere “molto cocciuta” e il lungo profilo dedicato a lei e alla storia di 23andMe, da poco pubblicato sul sito di Nature, sembra confermarlo.
23andMe e Google
Dopo la laurea in biologia alla Yale University, nel 1996 Wojcicki iniziò a lavorare come consulente per alcuni fondi d’investimento nel settore dell’assistenza sanitaria, ma ne fu presto disgustata: l’unico scopo di alcune società era produrre soluzioni e trattamenti medici molto costosi per ottenere il massimo dalle assicurazioni sanitarie, un problema che ancora oggi affligge la sanità negli Stati Uniti. Insieme a Linda Avey e a Paul Cusenza, nel 2006 fondò 23andMe con l’idea di scardinare i classici modelli di gestione dell’assistenza sanitaria e dell’analisi dei dati per la salute. Il nome deriva dalle 23 paia di cromosomi presenti nelle cellule dell’organismo umano, dove sono concentrate le informazioni genetiche di un individuo. Complici alcune conoscenze, Wojcicki ottenne fondi per 8,95 milioni di dollari da alcuni degli investitori più prominenti nel settore, come la grande azienda di biotecnologie Genentech; fu però la partecipazione di Google a dare fama alla società appena nata e a farne parlare sui giornali (nel 2007 Wojcicki si sarebbe poi sposata con Sergey Brin, cofondatore di Google: il loro matrimonio è finito nel 2015).
L’idea di base di 23andMe era semplice, per quanto ambiziosa: vieni sul nostro sito, acquisti un kit per l’esame del DNA, te lo spediamo a casa, tu sputi dentro a una provetta e ce la mandi indietro, noi analizziamo il DNA e ti diciamo cosa abbiamo scoperto, compresa la presenza di geni che indicano il maggior rischio di ammalarti di qualcosa. In pochi mesi decine di migliaia di persone aderirono all’iniziativa, ricevendo in cambio informazioni di ogni tipo sul loro DNA, da maggiori predisposizioni a soffrire di calvizie o di obesità, passando per cose più creative come la ricostruzione del proprio albero genealogico e informazioni da “strano-ma-vero”, come le cause genetiche della consistenza del proprio cerume. Wojcicki organizzò anche eventi con personaggi famosi, che tutti contenti sputacchiavano nelle provette per partecipare all’iniziativa.
Nei primi 5 anni di attività, la società privata di Mountain View per le analisi del DNA per corrispondenza raccolse 118 milioni di dollari di investimenti, con centinaia di migliaia di clienti incuriositi e apparentemente poco preoccupati delle conseguenze per la loro privacy. Non mancarono le critiche, con ricercatori ed esperti di genetica scettici sull’effettiva utilità di 23andMe in ambito sanitario. Scoprire predisposizioni e fattori di rischio basandosi sulla pura genetica era, ed è ancora, molto complicato. La storia familiare di un paziente, per esempio, è attualmente un indicatore molto più efficace per valutare il rischio di sviluppare particolari malattie, da quelle cardiache a quelle a carico del sistema nervoso. Altri dubbi furono sollevati circa l’intenzione di 23andMe di vendere i dati raccolti in forma aggregata (quindi senza poter risalire a un singolo individuo) a centri di ricerca e case farmaceutiche per sviluppare i loro farmaci. Oltre ai problemi di privacy, c’erano i risultati poco entusiasmanti su iniziative simili organizzate in ristrette aree geografiche (come in Islanda) per trovare rapporti diretti tra genetica e meccanismi delle malattie.
Ascesa e declino
La promozione del test per il DNA di 23andMe era abbastanza spregiudicata: secondo i detrattori prometteva più di quanto potesse mantenere, e alla fine attirò le attenzioni della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che si occupa di regolamentare i prodotti per la salute, compresi i farmaci, e gli alimenti. Nel 2009 l’FDA chiese all’azienda le prove sull’efficacia del suo test per il DNA e sul fatto che il servizio di previsione del rischio per le malattie non danneggiasse i clienti, per esempio inducendoli a sospendere cure o a intraprenderne di non necessarie. Iniziò un periodo complicato per 23andMe: da un lato l’azienda si comportava ancora come una startup con priorità diverse e incompatibili con quelle dettate dalla burocrazia di un ente governativo, dall’altro la FDA chiedeva informazioni più chiare e maggiori dettagli.
Ritenendo di non avere violato nessun regolamento, nel maggio del 2013 quelli di 23andMe decisero di non rispondere più alle richieste della FDA, che nell’autunno dello stesso anno inviò una lettera molto minacciosa con l’ordine di interrompere qualsiasi attività di promozione del prodotto per i test del DNA. L’azienda in poche settimane fu costretta a rivedere la sua offerta: poteva continuare a comunicare ai suoi clienti le informazioni sui loro avi, ma nessun dato sulla salute (se si acquista il kit dall’Italia vale ancora oggi questa regola). La risorsa che aveva attirato più clienti e aveva determinato il successo di 23andMe non era più utilizzabile e Wojcicki rischiava seriamente di perdere la sua azienda.
Rilancio
Wojcicki si rivolse quindi a Kathy Hibbs, un’avvocata di un’altra azienda che si occupava di analisi genetiche, chiedendole se ci fosse il modo di risolvere i contenziosi con la FDA ed evitare il fallimento di 23andMe. Come ricorda Wojcicki su Nature, fu necessario un po’ di tempo prima che Hibbs la convincesse ad assumere un approccio più conciliante e interlocutorio con la FDA: forse la cofondatrice di 23andMe non aveva tutti i torti a pensare che ogni cliente avesse il diritto a ricevere le informazioni sul DNA con cui è fatto, ma le regole sono decise ad altri livelli e con quelle bisognava convivere. Hibbs fu assunta per gestire la riconciliazione e, dopo un anno, propose alla FDA di approvare un piccolo test genetico, da usare per dire ai clienti di 23andMe se i loro figli potessero ereditare o meno il rischio di ammalarsi della sindrome di Bloom, una malattia ereditaria molto rara.
Considerata l’utilità del test e il suo ambito d’impiego molto ristretto, nel 2015 la FDA accolse la proposta di 23andMe. La notizia non fece molto scalpore: il progresso era di per sé piccolo, anche se era la prima volta che un’azienda privata otteneva il permesso formale della FDA per condurre un test genetico per una malattia negli Stati Uniti.
A distanza di circa 2 anni, la strategia dei piccoli passi seguita da Hibbs si è dimostrata vincente. Lo scorso aprile la FDA ha dato il permesso a 23andMe di comunicare ai suoi clienti il rischio di sviluppare dieci malattie, comprese Alzheimer e Parkinson. Le limitazioni su cosa comunicare e cosa no continuano comunque a essere pesanti. 23andMe non può fornire informazioni sulla presenza di varianti genetiche che potrebbero far aumentare il rischio di ammalarsi di alcuni tipi di cancro, così come non può fornire indicazioni su quali farmaci avrebbero più probabilità di funzionare in base ai profili genetici. Rispetto ai primi tempi, l’azienda fornisce quindi una piccola frazione della mole d’informazioni che condivideva.
Ricerca e farmaci
Per compensare, Wojcicki negli ultimi due anni ha iniziato a investire molte più risorse nelle analisi di massa dei dati raccolti dai suoi clienti. Ha assunto Richard Scheller, ex dirigente di Genentech e gli ha dato l’incarico di mettere a frutto il database sui quasi 2 milioni di clienti, che negli anni hanno inviato i loro campioni di saliva per le analisi e che hanno risposto a un’enorme quantità di questionari sulle loro condizioni di salute. Questi dati consentono di utilizzare un approccio diverso da quello classico, che prevede di cercare persone con una certa malattia o tratto in comune e poi trovare la variante genetica che contribuisce a determinarla: col sistema alternativo, si sceglie un gene sul quale è nota l’influenza di un determinato farmaco (principio attivo) e si cercano poi le malattie e i tratti che sono legati a varianti di quel gene. Il sistema è piuttosto complesso e funziona con algoritmi sviluppati da 23andMe, che confida in questo modo di accelerare le ricerche di nuovi farmaci, permettendo ai ricercatori di crearne di più mirati degli attuali e con meno effetti collaterali.
Il sistema (studio di associazione phenome-wide, PheWAS) è stato testato dal biologo computazionale Fah Sathirapongsasuti su farmaci sviluppati negli ultimi decenni, per vedere se fosse in grado di prevedere o meno la loro efficacia sulla base dei dati del DNA e dei questionari dei clienti di 23andMe. La verifica ha funzionato e, in alcuni casi, ha perfino portato a identificare quali principi attivi sono più efficaci in un individuo rispetto a un altro, con la stessa malattia. 23andMe ora si sta concentrando su sette principi attivi per quattro diversi gruppi di malattie: cancro, disturbi cardiovascolari, patologie della pelle e problemi al sistema immunitario.
Opportunità e scetticismo
Dopo anni di dubbi e scetticismo, alcuni ricercatori iniziano a vedere in 23andMe un’opportunità per migliorare le loro ricerche: la base di 2 milioni di clienti è molto più ampia di quella di altre aziende del settore, che di solito non arrivano a mezzo milione di persone. I critici comunque non mancano, soprattutto nei confronti della scelta di 23andMe di fornire dati già elaborati del proprio database, senza consentire ai ricercatori di accedere a quelli puri più ricchi d’informazioni. L’azienda non ha però alternative, perché si è impegnata con i suoi clienti a non condividere direttamente i loro dati con terze parti, ma solo in forma aggregata e dopo un’elaborazione (c’è anche chi sospetta che i dati non siano forniti in modo esteso per evitare che 23andMe perda le sue esclusive).
Altri ricercatori sono invece scettici sull’affidabilità dei questionari compilati dai clienti di 23andMe. Dovrebbero servire per indicare il proprio stato di salute, le proprie abitudini in ambito sanitario e il proprio stato mentale, ma c’è la possibilità che le risposte siano condizionate dal momento in cui sono compilati. Una persona segnata come depressa nel sistema di valutazione di 23andMe, per paradosso, potrebbe avere dato qualche risposta che indicava questa condizione semplicemente trovandosi in una giornata difficile. L’azienda sostiene di incrociare diversi dati prima di arrivare a qualche conclusione e alcune ricerche scientifiche sulla base di questo sistema sono già state pubblicate, ma i dubbi rimangono e riaffiorano ciclicamente. I dati forniti da 23andMe sono stati usati in circa 80 pubblicazioni scientifiche e l’azienda collabora stabilmente con una ventina di case farmaceutiche.
10 milioni
Dopo la concessione dei permessi in aprile da parte dell’FDA, l’atteggiamento degli investitori nei confronti di 23andMe è cambiato e ha dato a Wojcicki la possibilità di raccogliere nuovi fondi, facendo aumentare la valutazione della sua azienda. Il fatto che il suo modello possa funzionare è però ancora tutto da dimostrare: lo sviluppo di farmaci e principi attivi basati sulla ricerca genetica è ancora ai primi passi e ha portato a numerosi fallimenti e imprevisti. 23andMe nei prossimi anni dovrà fare inoltre i conti con la crescente concorrenza, negli Stati Uniti e all’estero, di aziende che si stanno affacciando nel settore con le loro offerte di test per il DNA e di raccolta di dati per conto delle aziende farmaceutiche.
Wojcicki non sembra essere preoccupata da questi scenari ed è convinta che una maggiore concorrenza ridurrà ostacoli e riserve dei regolatori, come la FDA, aprendo nuove opportunità sulle analisi del DNA, delle predisposizioni genetiche e dei fattori di rischio. Nei prossimi anni, 23andMe confida di potere raggiungere i 10 milioni di clienti e di sfruttare nuove soluzioni, come i dispositivi che tracciano l’attività fisica, per avere dati più affidabili su condizioni di salute e abitudini di vita, da incrociare con quelli sul DNA. A Wojcicki servono circa 8 milioni di persone interessate a fare analizzare la loro saliva per 200 dollari, ma dice di essere ottimista: “Anche solo basandoci sulla nostra crescita naturale, ci arriveremo”. Come, e se, tutti quei dati si trasformeranno in un vero progresso per l’umanità resta ancora un mistero.