Borse di tela, borse di tela ovunque

Come è successo che le cosiddette "tote bags" siano diventate un accessorio per dichiarare l'appartenenza a una certa categoria di persone

Il 2 ottobre la Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto un appello con l’accusa di violazione di copyright di LVMH, il più grande gruppo di società di lusso del mondo, contro My Other Bag, un’azienda californiana che produce borse di tela su cui sono disegnate borse celebri, come la Luggage Shopper di Céline, la Birkin di Hermès e, appunto, la Neverfull di Louis Vuitton, il marchio più famoso di LVMH. I tribunali americani hanno stabilito che queste borse di tela sono una parodia e quindi un tipo di imitazione che rientra nei limiti del “fair use“, oltre a non essere una vera alternativa a quelle di Louis Vuitton per i potenziali consumatori.

È vero però che chi acquista una borsa di tela di My Other Bag lo fa perché conosce bene il marchio che imita e lo status che vi è associato: succede con tutte le borse di tela, un oggetto che negli ultimi anni è diventato molto di moda grazie alle sue due caratteristiche principali, cioè che costa poco e permette a chi le usa di farsi riconoscere come appartenente a un certa categoria di persone, per esempio quelle che leggono libri. Per questa ragione nel 2011 il New York Times ha definito le borse di tela l’accessorio «perfetto per questi tempi di recessione e post-lusso», dato che «lo status è trasmesso non dal denaro ma dal successo, dal senso etico [nascono come alternativa alle borse di plastica che inquinano, ndr] e dalla cultura». Per chi le vende – case editrici, festival culturali, cinema e riviste – sono anche un modo per farsi pubblicità.

A sinistra la giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Ruth Bader Ginsburg con una borsa di tela realizzata per pubblicizzare un fumetto per bambini sulla sua vita, “I Dissent: Ruth Bader Ginsburg Makes Her Mark”, il 28 luglio 2017 a Sun Valley, in Idaho: Bader Ginsburg è considerata un simbolo di realizzazione personale da molte donne americane (Rick Egan/The Salt Lake Tribune via AP)

Le borse di tela in inglese si chiamano tote bags, un nome che a sentirlo senza conoscerne il significato sembra suggerire sofisticatezza: in realtà la traduzione letterale di questa espressione è semplicemente “sporta”, cioè “borsa da spesa”. L’altro nome in inglese con cui a volte vengono chiamate, shopper, richiama in modo più chiaro il concetto.

Esistono dalla fine dell’Ottocento, quando il tessuto e la plastica prodotti industrialmente cominciarono a sostituire il vimine dei cesti. Negli Stati Uniti la prima azienda ad associare il suo marchio alla loro forma fu L.L. Bean, che produce abiti per le attività all’aperto, nel 1944: le sue “ice bag” erano pensate per trasportare bevande fredde ai picnic. Poi negli anni Sessanta la loro forma ispirò quella di una vera e propria borsa alla moda, la Cashin Carry Tote della stilista Bonnie Cashin. Più di recente c’è stata la moda delle borse con la scritta “I’m not a plastic bag” (cioè “Non sono una borsa di plastica”) della stilista britannica Anya Hindmarch, cominciata quando già le borse di tela si vedevano dappertutto anche per ragioni ecologiche: nel 2007 80mila persone hanno fatto la fila sotto la pioggia fuori dai supermercati Sainsbury’s di Londra per averla. Quando la borsa fu messa in vendita a Taiwan ci furono delle risse: 30 persone si ferirono e la polizia dovette intervenire. Al lancio di New York tremila borse furono vendute in mezz’ora.

Le prime borse di tela “culturali” furono quelle della National Public Radio (NPR), che negli anni Settanta cominciò a regalarle agli ascoltatori che facevano delle donazioni come forma di ringraziamento.

(NPR)

Negli anni Ottanta invece arrivò la borsa di tela di Strand, la più famosa libreria di New York: nel 2016 ne sono state vendute 89mila. Produrre queste borse costa pochissimo, meno di 10 dollari, ma chi è interessato ad acquistarle per andare in giro esibendone il logo è disposto a pagare anche molto di più per averne una: anche 60 dollari, circa 50 euro, nel caso di NPR. Qualcosa di simile è successo anche con le borse di tela del sito dedicato ai libri Literary Hub, fondato nel 2015. Per il suo lancio furono prodotte delle borse di tela con la stampa di una fotografia della scrittrice Joan Didion da regalare e sui social network moltissime persone chiesero di poterle acquistare offrendo «cifre esorbitanti», disse il direttore del sito al New York Times: «Se non dovessimo farcela come sito potremmo sempre diventare un’azienda produttrice di borse di tela».

Il modello classico di borsa di tela di Strand, di cui esistono moltissime varianti (Strand)

Le borse di tela “culturali” di maggior successo oggi negli Stati Uniti sono però quelle del New Yorker. Da poco più di un anno si possono ottenere (“gratis”) abbonandosi alla rivista, e solo in questo modo: in questo modo la borsa distingue ancora di più chi la porta dalle altre persone, perché solo un vero lettore del New Yorker (o comunque qualcuno che ha speso come minimo i 12 dollari dell’abbonamento digitale per 12 settimane) può sfoggiarla. Lo stesso meccanismo è stato sfruttato anche in occasione di vari eventi culturali, come mostre d’arte in cui solo i primi arrivati avevano la possibilità di ricevere una borsa di tela. Di borse del New Yorker ne sono state distribuite circa 500mila e alcuni “vecchi abbonati” si sono lamentati con la rivista perché solo i “nuovi abbonati” potevano riceverla; il modello diffuso finora sarà sostituito a breve con uno nuovo.

Il fatto che queste borse indichino l’appartenenza a un determinato gruppo di persone le rende anche un frequente soggetto di post sui social network; su Instagram c’è addirittura un profilo che pubblica fotografie di newyorkesi che ne portano una. Se vi piacesse far parte di questo club ricordate però che la borsa non arriva in Italia, quindi vi conviene cercarla su eBay.

https://www.instagram.com/p/BXv_w6YjBj-/?taken-by=newyorknewyorkers

C’è anche chi ha scherzato sul significato di appartenenza sociale delle borse di tela: l’autrice satirica Carina Hsieh ha realizzato una “meta-borsa di tela” che da un lato ha l’immagine della borsa di tela del New Yorker, dall’altro quella della borsa di tela di Strand.

In Italia le borse di tela “culturali” sono arrivate negli ultimi vent’anni e nessuna è diventata un simbolo di status al pari di quella del New Yorker – anche qui si ha l’impressione che le borse di tela più ambite siano quelle americane – ma ce ne sono varie che non è raro vedere in giro per i festival, alle presentazioni di libri o a teatro. Ci sono quelle del Festivaletteratura di Mantova, che ogni anno ne propone una nuova con la grafica dell’ultima edizione, oppure quelle del gruppo editoriale GeMS con la scritta «Leggere può creare indipendenza» o delle librerie La Feltrinelli per la campagna di comunicazione “Il razzismo è una brutta storia”.

Una casa editrice che spesso fa realizzare delle borse di tela come materiale promozionale per i libri è Minimum Fax. Maura Romeo, responsabile dell’ufficio commerciale della casa editrice, ha spiegato al Post che anche nel suo caso, come in quello del New Yorker, le borse non sono acquistabili in modo indipendente: in alcuni periodi dell’anno vengono regalate a chi fa acquisti dal sito della casa editrice (e solo da lì) spendendo più di 50 euro, e vengono vendute a 10 euro durante le fiere. Anche la casa editrice Einaudi vende le borse solo nelle fiere.

In passato è capitato che dei librai chiedessero di poter vendere le borse anche nei loro negozi, ma sono stati casi eccezionali. Per una piccola casa editrice gestire questo tipo di vendite è impegnativo a livello contabile: vendere gadget è diverso da vendere i libri, per cui esistono una tassazione particolare e il sistema delle rese, quello per cui i libri non venduti dai librai tornano agli editori: per questo le borse di tela non fanno veramente parte del business delle case editrici.

La borsa di tela di Mimimum Fax che ha avuto più successo negli anni è stata quella dedicata a Quando siete felici, fateci caso di Kurt Vonnegut: in quadricromia su una base azzurra, con il disegno del gelato che si vede anche sulla copertina del libro. Ne furono fatte 1.500 e solo al Salone del Libro di Torino del 2015 ne furono vendute quattrocento. Secondo Romeo la borsa fu particolarmente richiesta alla fiera perché essendo colorata e avendo una grafica particolarmente accattivante piacque anche a chi non sapeva chi fosse Vonnegut e magari non conosceva Minimum Fax. Probabilmente anche il fatto che il titolo del libro pubblicizzato dalla borsa sia interpretabile come un aforisma ha contribuito al suo successo. Per Minimum Fax il costo di una singola borsa di tela di Vonnegut, IVA esclusa, fu di 3,20 euro: Romeo ha detto che scegliendo modelli di borse di qualità inferiore, cioè con una grammatura della tela minore, e in base al numero di borse acquistate, si può spendere meno, fino a 1,50 euro. Quelle che vengono distribuite gratuitamente sono di questo tipo più economico, di solito.

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