Da dove arriva il successo di Supreme
Il marchio di streetwear più popolare degli ultimi tempi cominciò nel 1994 con un negozio a Manhattan; oggi vale un miliardo di dollari
La notizia della settimana nel mondo dello streetwear, cioè della moda legata ai giovani e alla cultura hip hop e degli skater, è che il marchio Supreme ha venduto una larga parte delle sue azioni al fondo di investimenti Carlyle Group. L’operazione è stata confermata dal capo di Supreme, James Jebbia, che però non ha fornito dettagli: fonti del sito di moda Business of Fashion, però, hanno detto che Carlyle Group ha acquistato circa il 50 per cento delle azioni di Supreme per circa 500 milioni di dollari, valutando quindi l’intera società un miliardo di dollari. Supreme esiste da 23 anni e fu fondata da un imprenditore con un solo negozio per skater a New York; oggi è uno dei più importanti – se non il più importante – marchio di streetwear, oggetto di un culto come poche altre società di moda al mondo, e che negli ultimi anni ha avuto un aumento di popolarità con pochi precedenti.
A chi ha più di 30 anni, oppure non segue le nuove tendenze della moda, il marchio Supreme probabilmente non dirà niente. Per gli altri, invece, è da qualche anno praticamente onnipresente, grazie a una strategia di marketing capillare e basata principalmente sui social network, in particolare Instagram, cioè quello più redditizio e sfruttato dalle aziende di moda. In Italia la più recente popolarità di Supreme è dovuta in buona parte alla pubblicità che gli fa il cantante Fedez, che su Instagram ha 4,2 milioni di follower, a cui si aggiungono i 10,5 milioni della sua fidanzata e influencer di moda Chiara Ferragni, insieme alla quale Fedez si fotografa quotidianamente. Scorrendo la timeline di Fedez si trovano decine di foto in cui indossa magliette, felpe, giacche o porta borsoni con il logo Supreme molto in vista; ne ha anche parlato spesso nelle interviste, e in un suo recente profilo uscito sul sito di lifestyle americano Highsnobiety ha detto di avere la più vasta collezione del marchio in Italia.
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Supreme fu fondata nel 1994 da Jebbia, che aprì un negozio a Lafayette Street, Manhattan, dopo aver lavorato per circa dieci anni in altri marchi di moda newyorchesi (era nato negli Stati Uniti, ma aveva vissuto fino ai 19 anni a Londra). Il primo negozio di Supreme apparve fin da subito diverso dagli altri. Era una via di mezzo tra un negozio e una galleria d’arte, e in mezzo al locale c’era un grande spazio in cui si poteva andare sullo skateboard. L’atipicità del negozio ricevette da subito molte attenzioni da parte degli skaters newyorchesi, ai quali da una decina d’anni si rivolgevano marchi come Nike e Adidas, che grazie alla diffusione della cultura hip hop all’inizio degli anni Ottanta avevano iniziato a vendere sneaker, felpe, t-shirt e giacconi sportivi con i propri loghi in bella vista a milioni di giovani statunitensi. La diffusione dello streetwear si basava proprio sull’emulazione dei rapper e degli sportivi più popolari tra i giovani, che avevano ora la possibilità di vestirsi come i loro idoli senza dover spendere cifre esagerate.
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Supreme fu da subito molto riconoscibile: il suo logo, rosso con la scritta bianca scritta nel font Futura (in corsivo), per stessa ammissione di Jebbia si basava esplicitamente sulle opere dell’artista americana Barbara Kruger, che soltanto recentemente si è lamentata dell’appropriazione. Supreme ha prodotto da subito di tutto, dalle magliette alle felpe ai cappellini, evitando di specializzarsi in un capo di abbigliamento preciso. Ci mise poco a farsi notare: nel 1995 un articolo di Vogue paragonò il marchio a Chanel, spiegando che nonostante le clientele molto diverse, entrambi erano un marchio di culto. Da allora Supreme è spesso chiamato «lo Chanel dello streetwear».
I capi d’abbigliamento di Supreme mischiavano molte diverse tendenze underground degli anni Ottanta, ha spiegato il New York Times: «Supreme prende lo spirito punk degli skater dell’era di Dogtown, il pragmatismo macho dell’abbigliamento militare, i colori sfacciati dell’hip hop degli anni Ottanta, e li fonde in un’estetica unica». Come ha spiegato il sito Racked, Supreme adottò da subito una tecnica tipica delle aziende d’alta moda, che producono capi molto elitari e costosi per posizionarsi come marchio di lusso, ma che poi ottengono i maggiori guadagni dalla vendita di accessori e prodotti più economici. I capi Supreme hanno prezzi molto più bassi di quelli delle aziende di alta moda, ma non sono comunque economici: si parla di diverse decine di euro per una maglietta, di oltre 150 euro per una felpa e di diverse centinaia per una giacca. Ma vendendo di tutto, dagli adesivi ai boxer ai cappellini, Supreme è riuscita a sfruttare una strategia simile.
Supreme è ancora oggi un’azienda più piccola di molte sue concorrenti. I suoi prodotti sono venduti soltanto online e in 11 negozi ufficiali: dopo quello di New York ne aprì uno a Los Angeles nel 2004, e da allora ne sono stati aperti a Parigi, Londra, Tokyo, Nagoya, Osaka e Fukuoka (il Giappone è uno dei mercati principali dell’azienda). Proprio la scorsa settimana Supreme ha aperto l’undicesimo negozio a Williamsburg, Brooklyn. Nonostante il successo, Supreme è riuscita a mantenere una reputazione di nicchia e legata ai movimenti underground, almeno fino agli ultimi anni, quando l’enorme successo ha intaccato questa caratteristica: secondo Women’s Wear Daily, i dettagli dell’accordo con Carlyle Group sono stati tenuti nascosti da Jebbia perché teme che la valutazione da un miliardo di dollari della società possa rovinare questa reputazione.
La difficoltà nell’acquistare prodotti Supreme ne ha aumentato la fama di marchio esclusivo: «non può competere per dimensioni, ma può farlo per quanto è figo», ha scritto Racked. Quello di produrre relativamente pochi capi, che puntualmente vengono esauriti pochi minuti dopo la messa in vendita online, è un modo per evitare che il sempre crescente successo di Supreme faccia stufare la gente, che si potrebbe allontanare dal marchio nel momento in cui diventasse di massa (condizione alla quale, secondo certi punti di vista, è già arrivato).
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Quando vengono introdotte nuove linee di abbigliamento, ogni giovedì, davanti ai negozi si formano code lunghissime di giovani che arrivano anche dall’estero e si mettono in fila ore prima, tanto che l’azienda ha dovuto chiedere di non aspettare dalla sera prima ma soltanto dalla mattina, per evitare problemi con le autorità. La strategia di presentare nuovi prodotti ogni settimana è un modo di Supreme per ottenere continuamente attenzioni dalla stampa specializzata, che spesso ottiene il suo traffico principale pubblicando le foto dei drop (cioè dei lanci di nuovi prodotti) dei marchi di streetwear e che quindi è ben disposta a diffondere nuove foto di abbigliamento Supreme ogni settimana.
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Supreme negli ultimi anni ha basato parte del suo marketing anche sulle collaborazioni con alcune delle più importanti aziende di moda, come Louis Vuitton, Nike, North Face, Playboy, Levi’s, Timberland o Stone Island, aumentando così anche il volume di articoli, foto e video promozionali pubblicati dalla stampa specializzata.
Ma a contribuire principalmente al successo del marchio sono state le campagne promozionali che coinvolgono spesso personaggi famosissimi della cultura pop, da Michael Jordan a Lady Gaga, e perfino gente come Neil Young e Morrissey, che sono stati fotografati soprattutto da Terri Richardson, tra i più famosi fotografi di celebrità al mondo.
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In Italia i capi di abbigliamento Supreme non vengono venduti nei negozi. Ciononostante, come ha raccontato il sito NSS, qualche anno fa degli imprenditori pugliesi hanno approfittato del fatto che il marchio Supreme non fosse registrato in Italia per produrre capi firmati “Supreme Italia”, con un logo simile a quello originale (ma con il box rosso più grande, per esempio). I capi Supreme Italia erano venduti anche nei negozi. Nell’aprile del 2017, però, il Tribunale di Milano ha accolto una causa di Supreme accertando che quella di Supreme Italia è “concorrenza parassitaria”, e ha ordinato all’azienda pugliese di interrompere immediatamente la produzione.
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