Assad è lì per restare
Nessuno pensa più davvero che il presidente della Siria possa essere rimosso, per come si sono messe le cose: ma resterà presidente di cosa, dopo quasi sette anni di guerra?
Dopo quasi sette anni di guerra in Siria, la posizione del presidente Bashar al Assad sembra solida e sicura come non era da parecchio tempo. Se due anni fa si parlava della fine imminente del suo regime, sfidato dagli attacchi dei ribelli siriani e dalle pressioni politiche internazionali, oggi la situazione è cambiata radicalmente: i ribelli più moderati – quelli che erano visti come unica alternativa presentabile al regime – sono stati sconfitti; gli Stati Uniti hanno rinunciato al programma della CIA che finanziava e addestrava gruppi di siriani in funzione anti-Assad; e anche l’Arabia Saudita, uno dei paesi della regione più ostili al regime siriano, sembra essersi rassegnata alla nuova situazione. Assad continuerà a essere presidente della Siria ancora a lungo, se non ci saranno repentini e imprevedibili colpi di scena; ma esattamente, presidente di cosa?
Mappa della Siria aggiornata al 22 settembre 2017 (di Thomas van Linge, pubblicata sul blog di Pieter Van Ostaeyen)
Questa qui sopra è una mappa della Siria aggiornata al 22 settembre, dove ogni colore indica uno schieramento diverso della guerra (ma non le fazioni, che sono molte di più). Il regime di Assad e i suoi alleati – ed è questo il modo più preciso per indicare questo schieramento: Assad e i suoi alleati, ci arriviamo – sono indicati con il rosso e controllano circa la metà del paese. A nord ci sono i curdi, indicati con il verde chiaro, che ormai da qualche anno hanno consolidato un sistema di autogoverno che sembra funzionare. Nel nord-ovest della Siria, quella zona verde scuro che corrisponde all’incirca alla provincia di Idlib, ci sono i ribelli siriani radicali, come per esempio Tahrir al Sham, il gruppo considerato vicino ad al Qaida che prima si faceva chiamare Jabhat al Nusra. Le poche aree grigie e nere indicano invece la presenza dello Stato Islamico (o ISIS): le due battaglie più importanti che sta combattendo oggi l’ISIS in Siria sono quella di Raqqa (contro una coalizione di arabi e curdi appoggiata dagli Stati Uniti) e quella di Deir Ezzor (contro Assad e i suoi alleati).
Rispetto a com’era la Siria due anni fa, prima dell’intervento della Russia a lato di Assad, la situazione è cambiata parecchio. Assad e i suoi alleati hanno sconfitto i ribelli ad Aleppo, segnando la fine delle loro aspirazioni di vittoria, e lo Stato Islamico ha cominciato a perdere terreno a causa dell’avanzata dei curdi da nord e delle forze governative da ovest.
Mappa della Siria aggiornata all’agosto 2015, prima dell’intervento russo in Siria (di Thomas van Linge, pubblicata sul blog di Pieter Van Ostaeyen)
Oggi le potenze regionali e gli stati occidentali considerano la presidenza di Assad come uno scenario inevitabile per il futuro della Siria. Il regime di Assad, ha scritto Reuters la settimana scorsa, sarebbe anche disposto a negoziare con i curdi per riconoscere loro l’autonomia del cosiddetto Kurdistan siriano. Il dialogo tra le due parti sarebbe possibile per due ragioni: la prima è che nel corso della guerra siriana gli scontri tra curdi e assadisti sono stati molto pochi, così pochi che si è parlato più volte di una specie di accordo di non belligeranza; la seconda è che i curdi siriani non rivendicano l’indipendenza dei loro territori, come invece fanno i curdi iracheni, e accetterebbero una soluzione in cui venga riconosciuta loro un’ampia autonomia senza separarsi dalla Siria. Per quanto riguarda gli altri territori, Assad e i suoi alleati continueranno probabilmente a combattere contro i ribelli finché non saranno sconfitti, così come potrebbe succedere con lo Stato Islamico in alcune parti orientali del paese.
Una volta che il regime e i suoi alleati avranno riconquistato i territori dei ribelli e parte di quelli dello Stato Islamico, si potrà parlare di una Siria di nuovo unita sotto la presidenza di Assad? Non proprio.
Come ha scritto il New York Times, Assad è per molti versi un capo di stato con poteri limitati: molti dei territori della Siria che prima governava – soprattutto quelli oggi sotto il controllo dei curdi – rimarranno presumibilmente fuori dal suo controllo. In più Assad non ha vinto la guerra da solo, nemmeno lontanamente: il motivo che spiega la sopravvivenza del regime è l’intervento russo della fine del 2015, che ha ribaltato le sorti del conflitto. Inoltre, per molte delle battaglie che ha combattuto e vinto – tra cui quella di Aleppo – Assad deve ringraziare l’azione delle milizie sciite appoggiate dall’Iran, un paese che viene considerato sempre più influente e potente nel decidere il futuro della Siria. E poi c’è Hezbollah, la milizia sciita ormai molto più simile a un esercito che si è rafforzata moltissimo con la guerra siriana e che potrebbe presto tornare a essere più che una minaccia per Israele. Il fatto che non esista una perfetta coincidenza di interessi tra questi gruppi significa che ognuno potrà rivendicare qualcosa, limitando di fatto il potere di Assad di decidere del suo paese.
C’è poi un’ultima cosa da considerare. La Siria uscirà distrutta da questa guerra, non solo per la debolezza della sua economia e per i danni provocati dai bombardamenti e dagli assedi della città siriane, ma anche per la distruzione di quella cosa che il New York Times ha chiamato la “fiducia sociale” tra le varie componenti della società. Come riuscirà Assad a riconquistare la fiducia della maggioranza sunnita della popolazione, per esempio, quella che si è in parte organizzata nei gruppi di opposizione siriani e che è stata colpita dalle più gravi violenze del regime? Non c’è oggi una risposta a questa domanda, e parte della capacità di Assad di governare il suo stesso territorio passa proprio da qui.