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  • Martedì 3 ottobre 2017

Sulla morte di Tom Petty

Insieme alla triste notizia della morte di Tom Petty, lunedì sera è riapparso un vecchio fantasma della storia del Post, una lezione a cui siamo persino affezionati malgrado si tratti di un errore. Come sei anni fa, anche lunedì sera c’è stata una confusione di informazioni e Petty è stato dato per morto prematuramente da CBS News, che aveva una fonte di polizia non attendibile: il Post si è fidato e ha fatto male, e che qualcosa ci dicesse di aspettare è un’aggravante, non un’attenuante.

Prima di questo timore del direttore, espresso nella chat di redazione, era successo che TMZ, sito di gossip e notizie sulle celebrities, aveva dato per primo la notizia delle condizioni critiche di Petty. TMZ è di solito informato e attendibile sulle cose importanti, e la sua versione pareva credibile (lo era): il Post l’aveva riportata attribuendola a TMZ con le cautele del caso.
Poco dopo, CBS News aveva annunciato la morte di Petty attribuendola a fonti di polizia: ma nei minuti successivi non ce n’era stata nessuna altra conferma e tutti i siti del mondo che la riferivano avevano ancora come fonte solo CBS News. In più, proprio TMZ non aveva cambiato il suo articolo che continuava a riferire soltanto dell’ultimo aggiornamento sulla gravità delle condizioni di Petty. E infatti alle 22,35 TMZ, che mostrava di nuovo di avere fonti valide, obiettava che Petty non era ancora morto.

Il fantasma di cui dicevamo è un caso esemplare e ormai celebre di gestione di un’emergenza da parte del giornalismo in questi tempi concitati: l’attentato a Tucson contro Gabrielle Giffords, nel 2011. Il Post non aveva ancora un anno. Quello sbaglio ci insegnò che non ci sono scorciatoie rispetto alle regole sulle fonti, nemmeno attraverso le testate più grandi e illustri. Ieri sera c’è stato un concorso di errori, nato dalla polizia di Los Angeles e passato da CBS News, e ricaduto sui media di mezzo mondo. Compreso il Post, che poteva andare dietro ai suoi timori e aspettare dieci minuti in più.

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Da Notizie che non lo erano, il libro di Luca Sofri del 2015.

Lo sbaglio su Gabrielle Giffords

Il giornale in cui lavoro, il Post, esisteva da neanche nove mesi, l’8 gennaio 2011. Uno dei principali criteri e obiettivi che ci eravamo dati nel costruirlo e lavorarci era di alzare il livello di prudenza, accuratezza e affidabilità dell’informazione italiana in generale, quello che è raccontato in questo libro. In poche semplici parole, di stare attenti. Sapendo che avremmo fatto degli sbagli anche noi, ma convinti che stando molto attenti ne avremmo fatti meno, e meno gravi. E così fu per quasi nove mesi.

Poi, l’8 gennaio, un uomo con gravi disturbi mentali sparò alle persone presenti a un comizio della deputata statunitense Gabrielle Giffords, a Tucson, uccidendo sei persone e ferendo Giffords, e il racconto di quello che era successo e stava succedendo divenne – insieme a molte altre cose importanti – un caso memorabile e dibattuto di errori e dilemmi giornalistici negli Stati Uniti, e nel suo piccolo anche nella storia del Post.

La sparatoria era avvenuta quando in Arizona erano appena passate le 10 del mattino, le 18 in Italia. La notizia arrivò sui siti dei giornali americani almeno un’ora dopo. Il primo lancio da parte di CNN su Twitter fu alle 11.24 del mattino, le 19.24 in Italia: parlava di «diverse persone» colpite. Nel giro di pochi minuti i mezzi di informazione statunitensi e di tutto il mondo rilanciarono la notizia, parlando immediatamente del fatto che nella sparatoria era rimasta coinvolta una deputata statunitense e poi, pochi minuti dopo, che era stata colpita alla testa.

Poco dopo le 20 cominciò a circolare su alcuni siti e sui social network la voce per cui la deputata Giffords era morta. La prima testata a dare la notizia della morte di Gabrielle Giffords fu NPR, rispettato network radiofonico pubblico statunitense. I siti dei giornali italiani furono tra i primi al mondo a raccogliere e assumere la notizia della morte di Giffords, forse imbeccati da qualche lancio d’agenzia: le edizioni online di Repubblica, Corriere della Sera e La Stampa scrissero che la deputata era stata uccisa quando ancora moltissime testate americane sostenevano che le sue condizioni erano «ignote»: tra queste CNN, New York Times e Fox News. Così fino a poco prima delle 21, ora italiana, quando la notizia della morte di Gabrielle Giffords cominciò a diffondersi anche sui maggiori siti americani.

A poco a poco la CNN, Fox News e il New York Times aggiornarono i loro articoli scrivendo che la deputata democratica era morta (il New York Times, tra l’altro, citava come fonti CNN e NPR e non persone sul luogo dei fatti: pratica molto rara e arrischiata per i suoi standard). A quel punto anche il Post – che fino a quel momento aveva informato solo dell’avvenuta sparatoria, aspettando notizie affidabili sulle condizioni delle vittime – decise di dare conto della morte della deputata Giffords, nel suo spazio dei lanci più telegrafici, i «post-it», fidandosi di quanto era riportato da tutte le maggiori testate statunitensi.

Pochi minuti dopo, però, dall’ospedale arrivò la notizia che Gabrielle Giffords era viva ed era stata operata d’urgenza. Tutte le testate si corressero. Sul Post eliminammo il «post-it» contenente la notizia errata e demmo poi conto in un articolo degli sviluppi dell’errore. Si corressero anche le altre maggiori testate italiane, che erano state tra le prime al mondo a dare la falsa notizia della morte di Gabrielle Giffords. Fox News si scusò in diretta per aver dato una notizia errata di tale importanza; il New York Times si giustificò per l’errore inserendo una nota in fondo al proprio articolo. In serata arrivarono anche le scuse di NPR, il network radiofonico che aveva dato per primo la notizia falsa, attraverso la portavoce Anna Christopher:

Alle due esatte [le 20 in Italia, NdR] due nostre fonti ci hanno detto che la deputata era morta: una nell’ufficio dello sceriffo e una nello staff di un altro deputato, e abbiamo creduto loro in buona fede. Poco dopo, continuando a indagare, abbiamo scoperto che Giffords non era stata uccisa, e ci dispiace di aver diffuso una notizia errata.

Anna Christopher aggiunse che il network si era subito interrogato su come si fosse arrivati a dare una notizia falsa, ricostruendo la catena degli eventi. Quello che era successo generò subito un dibattito tra i mezzi di informazione statunitensi, che crebbe nei giorni e nelle settimane successivi, confermando e rilevando la severità delle più autorevoli testate americane nei confronti dei propri errori: giornali che hanno costruito la propria rilevanza e il rispetto dei lettori «stando attenti». Un altro giornalista di NPR, David Folkenflik, scrisse su Twitter che equivoci come quello su Giffords «mostrano la difficoltà di fornire tempestivamente delle notizie» in circostanze così concitate.

Quella di Tucson fu una classica situazione in cui si scontrano le due principali caratteristiche che dovrebbe avere il lavoro giornalistico in occasione di un fatto di cronaca: rapidità e accuratezza. All’aumentare dell’una, infatti, spesso diminuisce l’altra, e in parte si tratta di una dinamica inevitabile: dare le notizie il prima possibile vuol dire dedicare meno tempo – a volte nessun tempo – alla loro verifica, e quindi spesso permette di accorgersi di eventuali imprecisioni solo quando una notizia falsa sta già circolando, così come accadde allora. Non è certamente solo un problema di difficoltà organizzativa o dilettantismo: c’entra anche l’incredibile accelerazione impressa al flusso delle notizie dal ruolo e dalla rilevanza di internet, e la deprecabile inclinazione al sensazionalismo che porta molte testate a diffondere notizie false dandole per certe quando ancora non lo sono.

Una tra le pochissime testate giornalistiche al mondo a non dare la notizia falsa della morte di Gabrielle Giffords fu l’agenzia Associated Press, che spiegò di aver preferito aspettare in attesa di avere delle informazioni di prima mano. Se alla fine Giffords fosse morta davvero, però, sarebbero arrivati per ultimi: e forse i loro clienti non sarebbero stati contenti. Il problema del giornalismo in questo genere di situazioni è tutto lì, in un lavoro che una volta aveva la ricerca di verità come priorità e oggi ne subisce molte altre.

La scelta sulla falsa notizia di Giffords non venne solo discussa tra giornalisti e addetti ai lavori, ma diventò il tema di un famoso episodio della serie televisiva The Newsroom, scritta da Aaron Sorkin. La redazione televisiva protagonista della storia vive la giornata dell’attentato a Tucson e affronta il dilemma se dare o no la notizia della morte della deputata, sotto mille pressioni: le altre reti la stanno dando, l’editore vuole che la diano, rischiano di fare la figura degli ultimi che sanno e raccontano le cose in un momento drammatico. Ma decidono di aspettare, non avendo fonti affidabili se non altre testate che lo dicono, con la teatrale e memorabile battuta del produttore del programma: «È una persona. I medici la dichiarano morta, non i giornali».

Gabrielle Giffords sopravvisse. Ci sbagliammo quasi tutti, Associated Press no: bastava stare molto attenti.