Stephen Stills e Judy Collins, dopo 50 anni
Una canzone del 1968, una chitarra, e due ex fidanzati di allora che hanno fatto un disco insieme nel 2017
di Luca Sofri
C’è sempre un disco da cui scopri per la prima volta band o musicisti che poi diventeranno un pezzo della tua vita, quando non sono tuoi contemporanei: non è di solito il loro primo disco, e tu dopo, da quello, ricostruirai tutto il prima, e il dopo, fino ai giorni tuoi, e seguirai quelli a venire.
Io fui indottrinato ai “dinosauri del rock” da una preziosa nuova compagnia quando avevo 14 anni, al primo anno di liceo. Era il 1978, ero già in ritardo, e il primo disco di Neil Young che ascoltai era del 1971, ed era un live (un doppio live) della superband a cui partecipò per alcuni anni, Crosby, Stills, Nash e Young. Si chiamava Four way street.
Quel disco mi confuse per anni, e ci misi del tempo a correggere tutte le idee che mi ero fatto allora sulle attribuzioni delle sue canzoni all’uno o all’altro o agli altri dei quattro formidabili autori della band. Come molti, mi appassionai più a Neil Young e seguii meno gli altri, fino a molto tempo dopo. Graham Nash è autore di almeno quattro canzoni eccezionali. David Crosby sta continuando a fare bei dischi ancora in questi anni. E poi c’è Stephen Stills, ci arrivo.
All’inizio del concerto di Four way street, che imparai a memoria, c’era una breve intro di mezzo minuto con un coretto appiccicoso, indicato nei titoli come “Suite: Judy blue eyes”. Per molto tempo il fatto che una cosa di mezzo minuto si chiamasse “suite” non mi mise in nessun sospetto: poi scoprii che il coretto era solo un dettaglio della suite di 7 minuti e mezzo con quel nome, scritta da Stephen Stills nel 1968 per il primo disco di Crosby, Stills e Nash (Young non c’era ancora), del 1969, e fu una scoperta.
“Suite: Judy blue eyes”, Stills l’aveva scritta per la sua ex fidanzata Judy: si erano appena lasciati. Lei era Judy Collins, uno di quei nomi della musica che qui conoscono gli appassionati, e neanche tanto, e in America è una leggenda del folk e degli anni Settanta. Lei e Stills erano stati insieme neanche un anno, e un articolo sul New Yorker della settimana scorsa racconta le loro ricostruzioni di quel periodo. Si erano conosciuti a Los Angeles a un concerto di Eric Clapton: lui, che aveva sei anni meno di lei, 22, le aveva baciato la mano. Lei dice che non si ricorda, “ero quasi sempre sbronza, allora”.
Invece tutti e due ricordano che lui arrivò da lei, nel 1968, le fece sentire la canzone che aveva scritto sulla loro separazione, e le regalò la sua vecchia chitarra con cui l’aveva composta: “piangemmo un sacco”.
It’s getting to the point
Where I’m no fun anymore
I am sorry.
Sometimes it hurts so badly
I must cry out loud
I am lonely.
I am yours, you are mine,
You are what you are
And you make it hard
La canzone è una suite nel senso che è composta di tre parti autonome: e il coretto formidabile venne aggiunto in studio (magari avrebbero pianto meno, con quello).
Il New Yorker racconta tutta questa storia perché Stephen Stills e Judy Collins – dopo quasi cinquant’anni di successi, casini, droghe e alcol, alti e bassi – hanno fatto un disco insieme e ora sono in giro per concerti. Lei ha 78 anni, lui 72: hanno formato un duo dopo mezzo secolo che si conoscevano. Il disco ha un po’ di cover e un po’ di pezzi nuovi, e non è la fine del mondo, un po’ per affezionati. Si erano ritrovati qualche anno fa a un evento organizzato da una popolare associazione americana per anziani. A John Seabrook del New Yorker hanno raccontato tutta la storia e lui ha chiesto dove fosse finita la chitarra: Judy Collins è andata a prenderla, Stills non ci poteva credere, l’ha presa in mano per un momento ma l’ha appoggiata subito: “non ce la faccio”.
Tearing yourself away from me now,
You are free and I am crying.
This does not mean I don’t love you,
I do, that’s forever, and always.
I am yours, you are mine, you are what you are.
And you make it hard