Lo tsunami del 2011 ha fatto arrivare 289 animaletti marini giapponesi negli Stati Uniti
Hanno attraversato l'oceano Pacifico a bordo di oggetti di plastica o relitti di imbarcazioni spinti in mare aperto, e si sono anche riprodotti nel frattempo
Tra le conseguenze dello tsunami che nel 2011 colpì il Giappone, causando la morte di più di 18mila persone, ce n’è una di cui ci si è accorti solo di recente: l’arrivo lungo le coste degli Stati Uniti di un gran numero di piccoli animali marini giapponesi, che hanno potuto attraversare l’oceano Pacifico, mettendoci anche degli anni, grazie a detriti di plastica e altri materiali dispersi a causa della forza dello tsunami. Uno studio a cui la rivista Science ha dedicato la sua ultima copertina spiega quali siano questi animali e quali siano le possibili conseguenze della loro diffusione a una grande distanza dai loro habitat naturali. Gli animali trovati dagli scienziati sono 289: sono soprattutto invertebrati, come cozze, anemoni e vermi di mare, granchi e stelle marine, ma ci sono anche alcuni pesci che hanno attraversato l’oceano intrappolati negli scafi di imbarcazioni mezze affondate.
Il fenomeno è molto interessante perché è la prima volta che viene osservato in questa misura e perché è stupefacente che questi animali siano sopravvissuti per tanto tempo in mezzo all’oceano, dove le risorse alimentari sono molto minori rispetto alle acque costiere. In passato era già successo che alcuni animali si spostassero usando degli oggetti di origine umana come zattere, ma mai in così tanti. Alcune delle creature si sono anche riprodotte durante la propria traversata oceanica: gli scienziati hanno stabilito che in alcuni casi gli animali arrivati sulle coste statunitensi erano i nipoti di quelli partiti dal Giappone. Tra gli oggetti che hanno fatto da zattera agli animali ci sono anche borse frigo e caschi da motociclisti, ma quello che più di tutti ha fatto parlare di sé è stato un intero pontile galleggiante da 180 tonnellate, arrivato sulle coste dell’Oregon da Misawa nel giugno 2012, a più di un anno dallo tsunami: solo su questo pontile vivevano più di 120 diverse specie animali.
Il ritrovamento del pontile è stato il punto di partenza per lo studio: dato che così tanti animali erano stati trovati su quel singolo oggetto i biologi hanno cercato di stabilire quante specie fossero arrivate in totale. Più di duecento persone hanno lavorato come volontari per pulire le spiagge americane, dalla California all’Oregon, e cercare detriti arrivati dal Giappone. Le ricerche sono iniziate nel 2012 e sono continuate fino a quest’anno. Inizialmente alcuni temevano che gli oggetti potessero essere radioattivi per via dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, ma non è stata trovata nessuna traccia di contaminazione. Dato che non tutti gli oggetti che hanno attraversato il Pacifico hanno potuto essere esaminati dagli scienziati, James T. Carlton, il professore di scienze marine del Williams College che ha guidato lo studio, non esclude che centinaia di altre specie abbiano compiuto la traversata.
Gli autori dell’articolo pubblicato da Science hanno detto che è troppo presto per sapere quante di queste specie siano riuscite a inserirsi con successo negli ecosistemi marini lungo le coste nordamericane e quanto abbiano danneggiato le specie locali privandole delle proprie risorse naturali. Ci vogliono anni perché una specie invasiva faccia nascere una popolazione stabile in un nuovo ambiente e visto che l’area interessata da questo fenomeno di migrazione è molto vasta, non è stato possibile verificare se sia già successo. Carlton ha spiegato che probabilmente la maggior parte delle specie giapponesi svanirà per il processo di selezione naturale, in una «roulette ecologica».
Si potrebbe pensare che visto che lo tsunami è stato causato da un terremoto, non ci sia una responsabilità umana per la contaminazione degli ecosistemi, ma non è così: secondo gli autori dello studio la traversata oceanica degli animali giapponesi non sarebbe mai stata possibile senza i detriti di plastica e vetroresina, che possono galleggiare per anni e si sono dimostrati abbastanza resistenti da arrivare sulle coste americane. Secondo gli scienziati con l’aumento del livello degli oceani dovuto al cambiamento climatico l’eventualità che fenomeni del genere si ripetano è sempre più alta. Pure gli uragani potrebbero avere delle conseguenze simili, anche se mescolano ecosistemi meno lontani geograficamente.