L’aeroporto internazionale più vuoto del mondo
Si trova in Sri Lanka, è circondato da villaggi di pescatori, giungla ed elefanti ed è frequentato da una decina di passeggeri al giorno
Il distretto dello Hambantota, uno dei 25 che compongono lo Sri Lanka, si trova nella parte meridionale del paese: è una lunga striscia di terra che costeggia l’Oceano Indiano, non particolarmente sviluppata. Ciononostante ospita il secondo più grande aeroporto dello Sri Lanka dopo quello della capitale Colombo: si chiama Mattala Rajapaksa ed è considerato “l’aeroporto internazionale più vuoto del mondo”. È stato progettato per accogliere e smistare un milione di passeggeri all’anno, ma attualmente ne transitano una decina al giorno. La maggior parte sono visitatori che ci arrivano per vedere l’aeroporto e i suoi ampi spazi inutilizzati, e non per transitarci.
Per dire: l’aeroporto è una struttura che negli ultimi anni ha fatto i soldi principalmente affittando gli hangar come depositi di riso, e nel marzo del 2016 trecento soldati e agenti di polizia sono intervenuti per tenere lontani gli animali selvatici: sulle strade che lo circondano c’è infatti il problema degli elefanti, che escono dalla giungla e creano problemi al traffico.
Cosa c’entra la Cina con l’aeroporto di Mattala Rajapaksa
Il motivo per cui l’aeroporto di Mattala Rajapaksa è praticamente inutilizzato è che nei dintorni non c’è niente da fare: ci sono villaggi di pescatori e molta giungla, oltre alla città di Hambantota, scarsamente popolata e poco importante da un punto di vista commerciale.
Da qualche anno, però, Hambantota è al centro di un vasto progetto urbanistico che ha previsto la costruzione di molte infrastrutture, tra cui un grande porto affacciato sull’Oceano Indiano. Il progetto, del quale fa parte anche l’aeroporto, fu pensato da Mahinda Rajapaksa, presidente autoritario dello Sri Lanka dal 2005 al 2015 che al termine della guerra civile tra le forze governative e le Tigri Tamil (gruppo rivoluzionario comunista e nazionalista) decise di trasformare la regione in cui era nato – lo Hambantota – in uno dei poli commerciali del paese. Rajapaksa accettò così l’aiuto economico della Cina, anche perché i paesi dell’Unione Europea e gli Stati Uniti avevano interrotto gli aiuti economici verso lo Sri Lanka per via delle accuse di crimini di guerra compiuti dal regime durante gli ultimi anni della guerra civile.
Un secondo aeroporto internazionale non solo era necessario allo Sri Lanka, visto che quello di Colombo stava diventando sempre più congestionato, ma era anche un modo per provare a ridurre le disparità economiche tra la capitale e il resto del paese. Come ha spiegato a Forbes Deshal de Mel, economista di Hayleys Plc, tra i principali conglomerati finanziari dello Sri Lanka, alla regione dello Hambantota mancava tutto quello che può attirare le persone verso un aeroporto, sia per turismo che per lavoro. Per questo, il progetto di Rajapaksa prevedeva la costruzione di un enorme stadio per il cricket da 35mila posti, un grande centro conferenze, una nuova zona industriale, un’area di hotel e attrazioni per turisti e soprattutto un porto attrezzato per poter ospitare le navi più grosse (e quindi con il fondale molto profondo).
Per finanziare questo enorme progetto, lo Sri Lanka accettò di farsi finanziare dalla Cina, che era interessata per diversi motivi. Anzitutto lo Hambantota è una regione geograficamente strategica, che si affaccia lungo la rotta marittima per la quale passa l’80 per cento del petrolio importato in Cina. Inoltre l’inserimento della Cina nel progetto aderiva perfettamente alla strategia che è stata definita del “filo di perle”, cioè una serie di investimenti della Cina in infrastrutture – soprattutto commerciali ma anche militari – all’estero.
190 dei 209 milioni di dollari che sono stati necessari per costruire l’aeroporto sono stati prestati dalla Cina allo Sri Lanka, ma attualmente l’aeroporto ha un ricavato annuo di soli 300mila dollari: lo stato dovrà ripagare alla Cina 23,6 milioni di dollari all’anno per i prossimi otto anni, che si aggiungono al già altissimo debito pubblico dello Sri Lanka. Per rimettere in parte in pari i conti, lo scorso luglio lo Sri Lanka ha accettato di dare alla Cina il controllo del porto di Hambantota per i prossimi 99 anni, vendendogli il 70 per cento delle azioni. In cambio la Cina ripagherà 1,1 miliardi di dollari del debito pubblico dello Sri Lanka, e investirà ulteriori 600 milioni di dollari nel porto. La decisione del governo srilankese è stata molto criticata e ci sono state diffuse accuse di voler svendere la sovranità nazionale del paese. In tutto, durante il governo di Rajapaksa si stima che la Cina abbia prestato allo Sri Lanka quasi cinque miliardi di dollari.
Il racconto di Wade Shepard
Lo scorso anno il giornalista Wade Shepard visitò l’aeroporto Mattala Rajapaksa e poi ne scrisse su Forbes. Shepard scrisse che all’apparenza l’aeroporto sembrava come tutti gli altri: con un terminal di circa 12mila metri quadrati, 12 banconi per i check in, due gate, una pista in grado di far atterrare e decollare gli aerei più grandi, un banco informazioni con personale, guardie di sicurezza, addetti alle pulizie, bar e negozi di souvenir. Il problema, scrisse Shepard, era che non c’erano passeggeri e non si sentivano gli avvisi sonori tipici degli aeroporti, come gli annunci della partenza dei voli. Shepard poteva sentire l’eco dei suoi passi. Quando decise di tornare nella città di Hambantota, a meno di venti chilometri dall’aeroporto, Shepard chiese al direttore dell’aeroporto come fare: «Abbiamo diversi bus governativi, ma non c’è una tabella degli orari», gli rispose, consigliandogli di camminare per cinque chilometri fino al raccordo autostradale e da lì fare autostop.
L’aeroporto aprì ai voli commerciali nel 2013 e per i primi mesi ci furono diversi voli giornalieri, tutti prenotati. La maggior parte però era piena di passeggeri che volevano soltanto fare scalo a Hambantota per poi proseguire verso Colombo. Nel 2014, per esempio, su 3000 voli passati per l’aeroporto soltanto 21mila passeggeri – quindi sette per volo – iniziarono o conclusero il proprio viaggio a Hambantota. Ciononostante Rajapaksa di fatto costrinse la compagnia di bandiera dello Sri Lanka, la SriLankan Airlines, ad operare all’aeroporto, mettendo suo cognato a capo della compagnia. Negli anni ci sono stati, oltre che per Colombo, voli per Bangkok, Pechino, Shanghai e altre città asiatiche, ma nel momento della visita di Shepard, nell’aeroporto erano programmati soltanto un volo giornaliero della compagnia Fly Dubai, e uno settimanale della compagnia Rotana. Dei 600 dipendenti originali, ne erano rimasti 300. Oggi l’unica compagnia internazionale rimasta a Mattala Rajapaksa è Fly Dubai, che vola sul triangolo Dubai-Colombo-Hambantota, mentre la compagnia Cinnamon Air effettua dei collegamenti con Colombo. Maithripala Sirisena, l’attuale presidente dello Sri Lnka, che ha battuto Rajapaks alle elezioni del 2015, ha permesso a SriLankan Airlines di cancellare i suoi voli da e per l’aeroporto.
“One Belt, One Road”
L’aeroporto di Mattala Rajapaksa è stato inserito da molti analisti nell’ambito del progetto chiamato “One Belt, One Road” (“Una cintura, una strada”), con cui la Cina vuole espandere la sua influenza all’estero attraverso la costruzione di infrastrutture nei paesi in via di sviluppo. Come ha spiegato il New York Times, un aeroporto internazionale vuoto è un buon esempio del risultato di progetti guidati più dalle mire geopolitiche della Cina o dagli interessi delle sue società statali, che dalla reale necessità dei paesi che li ospitano. Secondo molti osservatori, progetti come l’OBOR, o per esempio l’apertura della prima base militare permanente cinese all’estero, avvenuta in Gibuti lo scorso luglio, dimostrano la volontà della Cina di interpretare nella maniera più estesa possibile il principio che ha guidato la sua politica estera finora, cioè quello del “non intervento” negli affari interni degli altri paesi. Negli ultimi decenni la Cina si è sempre presentata agli occhi del mondo come una potenza in ascesa, cioè con ambizioni internazionali, ma senza mai dare l’impressione di voler assumere un atteggiamento aggressivo o di volere usare attivamente il suo esercito per guadagnare influenza all’estero.
Uno dei più importanti progetti di questa strategia è la Via della Seta Marittima, cioè la parte che riguarda le rotte marittime dell’OBOR, e che consiste in una serie di porti gestiti almeno in parte dal governo cinese e che collegano la Cina al Sud Est asiatico, all’Africa alla Grecia. Per promuovere e presentare pubblicamente queste strategie, il Partito Comunista cinese sta sfruttando tra le altre cose il mito di Zheng He, navigatore cinese del Quattrocento che guidò sette spedizioni commerciali e diplomatiche in Africa, Asia e Medio Oriente, contribuendo ad affermare la Cina come potenza dell’Oriente.
Il mito di Zheng He serve alla propaganda cinese per trasmettere il messaggio che l’espansione cinese all’estero non è imperialista, come quella occidentale, ma ha motivazioni pacifiche e radicate nella storia del continente. Ottenendo il 70 per cento delle azioni di un porto straniero, la Cina si è collegata profondamente alle politiche locali: cosa succederà se ci dovessero essere divergenze insanabili tra i due governi? La Cina si ritirerà o difenderà i propri interessi? E in questo caso, come lo farà? «La Cina si presenta come una nuova potenza, più gentile, ma è il caso di ricordare che costruire porti e collegamenti ferroviari per consolidare nuove vie commerciali – e poi doverle difendere dalle popolazioni locali arrabbiate – è esattamente il modo in cui il Regno Unito si mise sulla scivolosa via che porta all’impero», ha concluso il New York Times.