Mi chiamo Elizabeth Strout
La scrittrice di "Olive Kitteridge" e "Mi chiamo Lucy Barton" ha pubblicato un altro libro ed è venuta a raccontarlo in Italia
di Luca Sofri
Elizabeth Strout viene spesso in Italia, per essere una scrittrice che vive negli Stati Uniti e ha una popolarità mondiale che la porta in molti altri posti del mondo: dopo questi giorni in Italia andrà a Parigi, dove invece è stata raramente a parlare dei suoi libri. In Italia nel 2009 ebbe un successo eccezionale il suo terzo romanzo (che avrebbe vinto il premio Pulitzer), Olive Kitteridge, e da allora è “di casa”, come si dice. Nei giorni scorsi è stata ospite nella sede torinese di Einaudi, l’editore dei suoi ultimi due libri (i primi quattro li aveva pubblicati Fazi), per incontrare alcuni blogger e giornalisti online in una informale conversazione intorno al tavolo di una leggendaria sala Einaudi, di quelle che hanno visto molte celebrate riunioni di decenni fa, e ancora se ne parla ogni volta che arrivano ospiti.
Prima dell’incontro, sentendomi più inadeguato dei blogger invitati, avevo chiesto di prendere un più colloquiale caffè con Strout nel suo albergo torinese: nella mia famiglia ci sono due sue precoci ed esperte lettrici, e ne ho approfittato negli anni per tenermi aggiornato sulle sue bravure e qualità, senza leggerne che poche pagine ogni tanto. Ma avevo provato a recuperare negli ultimi mesi, cominciando proprio dal romanzo nuovo, Tutto è possibile, che mi ero goduto malgrado avessi realizzato rapidamente che mi dovesse mancare qualche pezzo. Tutto è possibile, infatti, è un inventivo complemento del suo romanzo precedente, Mi chiamo Lucy Barton: e se non li aveste letti, ora non so se dirvelo oppure no. Nel senso che a leggerli in successione, l’idea è bella e funziona: nel secondo i protagonisti sono i comprimari del primo, e riconoscerli o recuperarli è emozionante. Ma lo è anche a leggerli invertiti, come ho fatto io: e la stessa Strout, abituata a un pubblico di fan fedeli e disciplinati, è spiazzata ma gratificata quando le dico della mia soddisfazione nell’avere sbadatamente invertito il procedimento.
Elizabeth Strout è una bella signora bionda che porta spesso i capelli raccolti e degli occhiali con una montatura nera. Ha un’eleganza leggera e signorile, che si permette pure delle espadrillas rosse senza ritorsioni. I suoi romanzi sono romanzi “di personaggi”, in cui le storie e i caratteri dei singoli prevalgono su un intreccio continuo, come torrenti che creano pozze qua e là, piene di cose e vita. E una delle cose in cui è molto brava è l’osservazione e la sintesi di momenti, pensieri, dettagli, tormenti di un istante: Lucy Barton non solo passa la notte insonne e si fissa sul ronzio del frigorifero, ma è “il ronzio del piccolo frigorifero che si accendeva e spegneva a intermittenza”, quella cosa che ci tormenta nelle camere d’albergo (la traduzione è di una delle più ammirate traduttrici italiane, Susanna Basso, che incrociamo arrivando nell’atrio della sede di Einaudi, con grandi abbracci tra le due).
E parla dei suoi personaggi, Strout, come se fossero persone vere con vite proprie, sospirando di affetto nei confronti dei suoi preferiti, tanto che qualcuno le chiede se ce n’è mica uno che l’abbia delusa, persino. Lei ci pensa un istante e risponde: «No. So tenerli a bada, alla fine». Dice che vorrebbe spiegare la sua tenerezza per ognuno di loro – anche quelli capaci delle maggiori spiacevolezze hanno sempre delle ragioni di indulgenza, dei risvolti di umanità – con quella frase di Tennesse Williams in Un tram chiamato desiderio, “ho sempre confidato nella gentilezza degli sconosciuti”, se non le suonasse troppo abusata (capita anche a un suo personaggio, di temere il cliché di certe frasi). E a momenti Strout pare la madre di Lucy Barton in ospedale, così curiosa e quasi pettegola sulle persone ma senza cattiveria, una curiosità materna, bisognosa.
Strout somiglia spesso ai suoi personaggi, più che il contrario, a pensarci.
«Mi interessa la gente, scrivo della gente: non mi interessano le idee», spiega: però nei suoi romanzi ci sono molte idee, profonde, brillanti, perentorie, che portano all’improvviso il lettore da un’altra parte rispetto alla storia, verso un pensiero.
L’ho già detto: mi meraviglia come riusciamo a trovare modi per sentirci superiori a un’altra persona, o a un gruppo di persone. Succede dappertutto, di continuo. Comunque lo si chiami, a mio giudizio è il fondo del barile di chi siamo, questo bisogno di trovare qualcuno da snobbare. (Mi chiamo Lucy Barton)
Ma sono sempre idee dei suoi personaggi, che lei non necessariamente condivide, a differenza della maggior parte degli scrittori che usa i personaggi per dire quello che pensa. Una scrittrice che è un personaggio di Lucy Barton afferma che gli scrittori abbiano una storia sola da raccontare: quando le chiedo se lei abbia una storia sola socchiude gli occhi e dice una cosa che non so ripetere ma che arriva come un «ma va’, non è mica vero».
Qualche anno fa Paolo Giordano scrisse così: “Elizabeth Strout se ne infischia. Scrive romanzi a tutto tondo, romanzi alla vecchia maniera eppure nuovi, romanzi corposi, classici, avvolgenti. Riduce la sperimentazione linguistica al minimo e non si concede alle mode, alle scorciatoie, al linguaggio televisivo o a costruzioni che non siano quelle proprie della letteratura”.
Tutto è possibile è ambientato nel Midwest, a nordovest di Chicago, a differenza delle sue altre storie del Maine, lo stato dove è nata e cresciuta (ora vive soprattutto a New York): la scelta è una ricaduta di Lucy Barton, che Strout cominciò a scrivere immaginando la scena iniziale nell’ospedale a New York, e andando avanti realizzò – dice – che il posto da dove veniva la protagonista doveva essere un posto di eccezionali orizzonti: «queste persone non sono di qui, pensai: ma non sono nemmeno del Maine, sono di un posto dove c’è molto cielo». Ma allora il Midwest era solo ricordato, adesso in Tutto è possibile è dove si svolgono le storie, e dove Lucy Barton riappare molto tardi, a lungo evocata e laterale, ma quando arriva riprende tutta la scena, un po’ come Orson Welles nel Terzo uomo.
Strout ascolta le domande, tradotte da un’interprete, e durante la traduzione delle sue risposte – sempre molto gentili e affettuose, anche quando sembrano scegliere di parlare d’altro – guarda fisso davanti a sé con improvvisi scatti del viso che sembrano sorrisi e forse sono tic, oppure il contrario: come se fosse abituata e non abituata a essere osservata, una cosa che sta tra cortesia e protezione. Quando conclude le frasi spesso ci aggiunge un risolino complice, un lieve ed ammiccante “ha ha!”. E muove le braccia magre davanti a sé, parlando; poi si tira su una manica della camicetta, si tocca gli occhiali, poi una tempia.
Alla fine della conversazione Strout si siede in un angolo a firmare le copie del libro per alcuni dei presenti, emozionati, mentre altri le fanno delle foto: lo fa con gentilezza e attenzioni, facendosi dettare lo spelling di alcuni dei nomi propri che le sono più estranei.
«Non mi interessano il bene o il male, quello è melodramma. Non mi interessa il sentimentalismo. Mi interessa cosa succede nelle vite delle persone, come si incasinano – perché si incasinano – e non le voglio giudicare».