Cosa ha detto Aung San Suu Kyi sui rohingya
La premio Nobel per la Pace e leader di fatto del Myanmar ha difeso l'esercito, nonostante le prove raccolte raccontino tutt'altra storia
Questa mattina Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace nel 1991 e leader di fatto del Myanmar, ha parlato di quello che sta succedendo nel suo paese alla minoranza musulmana rohingya. Suu Kyi è intervenuta a Naypyidaw, la capitale del Myanmar, di fronte a diversi funzionari di governo stranieri e ha fatto il suo discorso in inglese, lingua che parla fluentemente: come si aspettavano in molti, non ha criticato i militari birmani per le violenze compiute nelle ultime tre settimane sui rohingya, nello stato del Rakhine, e ha detto che le forze di sicurezza stanno prendendo tutte le misure necessarie per non colpire i «civili innocenti» e per evitare «danni collaterali». Le parole di Suu Kyi sembrano però non corrispondere alla realtà: immagini, video e testimonianze raccolte nelle ultime tre settimane hanno mostrato le enormi violenze indiscriminate compiute dall’esercito contro i rohingya, in quella che l’ONU ha definito “un esempio da manuale di pulizia etnica”.
Il discorso di Suu Kyi sui rohingya, il primo dall’inizio delle ultime violenze nello stato del Rakhine, è stato molto vago. Suu Kyi ha detto cose come: «Sono consapevole del fatto che l’attenzione del mondo sia concentrata sulla situazione nello stato del Rakhine. Come membro responsabile della comunità delle nazioni, il Myanmar non teme un controllo internazionale»; «Anche noi siamo preoccupati. Vogliamo capire quali siano i veri problemi. Ci sono state accuse e contro-accuse. Noi ascoltiamo tutti. Dobbiamo essere sicuri che queste accuse siano basate su prove concrete, prima di prendere qualsiasi iniziativa». Suu Kyi ha anche detto che le ultime violenze non hanno coinvolto molti dei rohingya che abitano il nord dello stato del Rakhine: anche questa affermazione sembra essere smentita dalle testimonianze raccolte da giornalisti e organizzazioni internazionali, secondo cui i rohingya scappati dalle loro case e rifugiati nel vicino Bangladesh sono stati 400mila in sole tre settimane.
Altri membri del governo di cui fa parte Suu Kyi hanno minimizzato quello che sta succedendo nello stato del Rakhine, dicendo che i rohingya stanno raccontando di finti stupri e stanno incendiando le loro stesse case per ottenere l’appoggio della comunità internazionale. Il New York Times ha scritto che in una pagina Facebook associata a Suu Kyi si è arrivati a sostenere che i gruppi umanitari internazionali siano collusi con i miliziani rohingya, cioè i membri dell’Esercito per la salvezza dei rohingya nel Rakhine (gruppo più noto con la sigla inglese ARSA), che il governo birmano considera un’organizzazione terroristica.
Non è chiaro il motivo per cui Suu Kyi non voglia prendere una posizione più netta verso le incredibili violenze compiute dai militari birmani, gli stessi che l’hanno tenuta agli arresti domiciliari per anni, contro i rohingya, considerata una delle minoranze più perseguitate al mondo.
U Win Htein, membro del partito di Suu Kyi ed ex soldato, ha detto che un motivo potrebbe essere la necessità di tenere a bada i militari, che fino a meno di due anni fa dominavano la politica birmana e che ancora oggi influenzano il debole governo civile in carica nel paese. Questa è un’ipotesi che era già stata fatta in passato, secondo la quale una posizione più netta di Suu Kyi sui rohingya potrebbe spingere l’esercito a intervenire per imporre la propria volontà, interrompendo così la transizione democratica in corso in Myanmar. Un’altra ipotesi è che Suu Kyi si stia comportando come un qualsiasi politico in cerca di consenso. A causa della loro fede, i rohingya vengono isolati da decenni e non sono per niente integrati nella società birmana; non hanno nemmeno la cittadinanza, che gli fu tolta nel 1982 perché accusati di essere entrati illegalmente nel paese più di un secolo prima. Brutalmente, significa che il loro consenso è infinitamente meno importante di quello della comunità di etnia bamar, la più grande del Myanmar, alla quale appartiene anche Suu Kyi.