I foreign fighters dell’ISIS che vogliono tornare nei loro paesi di partenza
In centinaia si sono spostati nella provincia siriana di Idlib per poi superare il confine ed entrare in Turchia, ha scritto il Guardian
Uno degli effetti del declino dello Stato Islamico (o ISIS) in Siria è lo spostamento in massa di centinaia di foreign fighters, i combattenti stranieri che negli ultimi anni si sono uniti all’ISIS per combattere il jihad e creare un Califfato in territorio siriano e iracheno. Martin Chulov, giornalista del Guardian che si occupa da tempo dello Stato Islamico, ha scritto che molti foreign fighters che hanno abbandonato il gruppo sono andati nella provincia di Idlib, nel nord-ovest della Siria, una zona dove l’ISIS non c’è e che è controllata per lo più dai ribelli radicali, quelli considerati vicini ad al Qaida. Chulov ha scritto, citando alcune sue fonti, che nelle ultime settimane parecchie decine di ex combattenti dello Stato Islamico sono riuscite a superare il confine con la Turchia, a nord della provincia di Idlib, pagando circa 2mila dollari ciascuno ai trafficanti locali.
Una mappa della Siria e dell’Iraq che indica chi controlla cosa. Secondo Chulov, centinaia di foreign fighters sono scappati dalle zone prima controllate dall’ISIS (in grigio) e sono andati nella provincia siriana di Idlib, quell’area segnata in verde chiaro nel nord-ovest della Siria. Da lì alcuni sarebbero andati verso nord, avrebbero attraversato il confine e sarebbero entrati in Turchia (Liveuamap)
La fuga dalla Siria dei foreign fighters che negli ultimi anni hanno combattuto con lo Stato Islamico è un fenomeno che preoccupa molto le intelligence europee: il timore è che questi ex combattenti, una volta tornati nei loro paesi di partenza, mettano in pratica l’addestramento militare ricevuto in Siria per organizzare e compiere attentati, come successe per esempio nei grandi attacchi a Parigi del novembre 2015.
Chulov ha intervistato un ex combattente dello Stato Islamico che si fa chiamare Abu Saad, ha 26 anni ed è saudita. Saad – la cui testimonianza comunque va presa con le molle, per l’impossibilità di verificarne tutti i dettagli – ha detto che sono molti gli ex combattenti che vorrebbero lasciare la Siria e tornare nei loro paesi. Diversi sauditi, europei, marocchini ed egiziani si sarebbero diretti nella provincia di Idlib e sarebbero concentrati in un’unica zona, per cercare di difendersi da eventuali attacchi dei gruppi legati ad al Qaida, che controllano l’area e che dell’ISIS sono grandi nemici (l’ISIS non è presente nella provincia di Idlib dall’inizio del 2014). Non è chiaro quanti foreign fighters abbiano finora attraversato il confine tra Siria e Turchia, ha scritto Chulov, così come non è chiaro quanti di loro siano stati uccisi durante i combattimenti degli ultimi anni.
Ci sono però alcune considerazioni da fare. Per prima cosa il grande esodo di ritorno dei foreign fighters europei che in molti si aspettavano finora non c’è stato, soprattutto per il tipo di guerra che si sta combattendo in Siria e in Iraq, che si potrebbe definire “senza prigionieri”. Molte delle città prima controllate dallo Stato Islamico sono state liberate tramite la tattica dell’assedio, rendendo quindi molto difficile ai combattenti del gruppo trovare una via di fuga verso l’esterno. Inoltre le agenzie di intelligence europee oggi sono molto più preparate di quanto non lo fossero due anni fa, quando ci furono gli attentati coordinati a Parigi: conoscono i nomi dei foreign fighters che si sono uniti allo Stato Islamico e nella stragrande maggioranza dei casi tengono traccia dei loro movimenti tra un confine e l’altro. Alcuni di loro, per esempio, sono stati arrestati una volta rimesso piede nel loro paese di partenza.
C’è poi un altro aspetto di cui ha scritto qualche mese fa la rivista Jane’s Intelligence Review, pubblicata dal gruppo britannico Jane’s, che si occupa di intelligence e sicurezza: molti foreign fighters si sono uniti allo Stato Islamico per ragioni specifiche, legate alla propria esperienza e che nulla avevano a che fare con la volontà di compiere attentati nei propri paesi di partenza; altri lo avevano fatto, almeno all’inizio, con l’idea di combattere Assad; altri ancora, quelli mossi da motivi religiosi, si erano spostati in Siria o in Iraq per restarci. Gli stessi governi europei non stanno facendo nulla per incentivare il ritorno dei foreign fighters nei loro paesi di partenza, e al tempo stesso stanno raccogliendo sempre più informazioni sul loro conto, grazie agli informatori che agiscono nelle aree controllate dai curdi nel nord della Siria e dell’Iraq. Come hanno dimostrato gli attentati in Catalogna del mese scorso, il pericolo terrorismo in Europa non è sempre legato ai foreign fighters di ritorno, ma spesso arriva da fenomeni di radicalizzazione di immigrati di seconda o terza generazione che non si sono mai mossi dal loro paese.