Qualcosa cambia in Danimarca
Nel paese con le tasse più alte d'Europa si prepara uno storico taglio delle imposte, ma c'è un prezzo
«Chiunque se lo possa permettere dovrebbe avere il diritto di comprarsi una Lamborghini: dopo tutto sta usando i suoi soldi». Per questa frase il ministro dell’Industria danese Brian Mikkelsen è da una settimana sotto attacco in tutta la Scandinavia. Gli è stato ricordato, ad esempio, che le auto inquinano, in particolare quelle di grossa cilindrata. Che non tutti possono permettersele. Che ci sono altri problemi più urgenti, come infrastrutture pubbliche fatiscenti e altri servizi pubblici sotto-finanziati. E infine gli hanno ricordato che l’ultima volta che qualcuno ha comprato una Lamborghini in Danimarca era il 2014.
La sua scelta di parole è stata probabilmente infelice nel contesto culturale scandinavo, ma la proposta che stava cercando di difendere Mikkelsen sembrerebbe probabilmente più che ragionevole a qualsiasi elettore di un altro paese europeo: abbassare l’imposta danese sull’acquisto di automobili dall’attuale 180 per cento a un più modesto 100 per cento.
Il suo piano, sostenuto dalla maggioranza del governo di centrodestra di cui fa parte, è anche più vasto di così. L’agenzia di stampa finanziaria Bloomberg lo ha definito il più vasto piano di taglio delle tasse nella recente storia danese. Mikkelsen propone un taglio delle imposte sul reddito per i lavoratori a tempo pieno e sconti fiscali per chi investe i propri risparmi nel mercato azionario. «Vogliamo creare una cultura in cui le persone sono più indipendenti – ha spiegato il ministro – vogliamo premiare chi fa partire una propria attività e vogliamo creare le condizioni migliori affinché possa svilupparla». Secondo Mikkelsen, questi obiettivi si possono raggiungere tassando meno il lavoro, e quindi creando un incentivo a lavorare di più, e rendendo più favorevoli gli investimenti nelle aziende del paese, creando sconti per chi compra azioni di società danesi.
Per il paese che secondo le classifiche OCSE ha la tassazione più alta di tutto il mondo sviluppato, si tratta di una grossa novità. La Danimarca rappresenta la quintessenza del cosiddetto “modello nordico”, il sistema economico adottato dai paesi scandinavi – Danimarca, Svezia, Norvegia, Islanda e Finlandia – e caratterizzato da un’elevata imposizione fiscale, un welfare capillare e molto efficiente, bassissime diseguaglianze e una grande apertura al libero mercato. Nel 2013, un numero speciale del settimanale Economist aveva definito il “modello nordico” una fonte di ispirazione per i politici di tutto il mondo, sia di destra che di sinistra.
Ma tra gli stessi scandinavi, quel modello sembra convincere sempre di meno. Oggi il centrodestra è al governo in Danimarca, Finlandia e Norvegia e i suoi leader ritengono che i loro paesi abbiano perso competitività nei confronti del resto del mondo. La soluzione che propongono è un taglio delle imposte sul lavoro e sulle imprese e una graduale riduzione del welfare, in modo da rendere meno attraente l’idea di restare senza occupazione. In questo percorso, la Danimarca sembra il paese più avanzato, anche culturalmente. «Il carburante che manda avanti il nostro stato sociale è la gente che ogni giorno si alza e va a lavorare», ha detto Mikkelsen. «Vogliamo continuare ad avere buoni ospedali e ad aiutare coloro che non sono in grado di sostenersi da soli, ma possiamo farlo solo se la gente continua ad andare a lavorare».
L’ascesa del centrodestra e delle sue politiche liberali non è una novità degli ultimi mesi. Alla fine degli anni Novanta, in seguito alle recessioni e alla stagnazione in tutti i paesi della regione, i governi locali iniziarono ad invertire le politiche socialdemocratiche che avevano dominato lo scenario politico per tutto il dopoguerra. Le imposte furono tagliate, in particolare quelle che colpivano i più ricchi, il welfare venne ridotto e furono diminuite le tutele sul lavoro. Anche se i paesi scandinavi restano tra i più egualitari al mondo, le cose stanno cambiando rapidamente. Secondo l’OCSE, Danimarca e Svezia sono i due paesi sviluppati in cui le diseguaglianze economiche sono aumentate più rapidamente negli ultimi anni.
Queste politiche liberali sono quasi ovunque iniziate grazie ai partiti socialdemocratici, gli stessi che avevano dominato la vita politica di quei paesi per tutto il dopoguerra. Molti di quei partiti si erano ispirati alla cosiddetta “terza via” inaugurata dal leader britannico laburista Tony Blair, uno dei primi politici a sostenere la necessità di spostare verso il centro le politiche dei partiti di sinistra, e secondo molti economisti, le politiche di quegli anni contribuirono a portare la Scandinavia fuori dalla stagnazione degli anni Novanta e a rendere le economie dell’area nuovamente dinamiche. Non fecero però altrettanto bene ai consensi dei partiti che le avevano intraprese.
Negli anni Duemila, i socialdemocratici scandinavi hanno visto calare ovunque i loro consensi e oggi restano al potere soltanto in Svezia, dove sono alla guida di un traballante governo di coalizione. Ma soltanto pochi dei voti persi dai socialdemocratici sono finiti ai loro avversari liberali. Accanto al loro declino, la Scandinavia ha visto l’ascesa dei partiti populisti di destra: il Partito dei finlandesi, il Partito del popolo danese e il Partito del progresso norvegese sono tutti al governo, o comunque alleati dei partiti di destra moderata. L’unica eccezione è la Svezia, dove gli Svedesi Democratici sono stati esclusi dal governo di coalizione, anche se alle elezioni del 2014 hanno ottenuto il 12 per cento dei voti e secondo i sondaggi oggi sono intorno al 20 per cento dei consensi.
Questi partiti, in genere, condividono con il centrodestra tradizionale un atteggiamento duro nei confronti dell’immigrazione. Sono favorevoli ai valori tradizionali della famiglia e contrari alle politiche molto progressive in tema di diritti civili portate avanti dai socialdemocratici scandinavi. Non amano invece i tagli allo stato sociale, visto che molti dei loro sostenitori sono anziani pensionati o appartengono ai ceti meno abbienti delle periferie e delle aree rurali. Apprezzano la riduzione delle imposte, che secondo loro porta alla creazione di nuovi posti di lavoro, ma sono contrari a ridurre i sussidi alla popolazione, tranne a quella straniera. Questa situazione crea un potenziale conflitto all’interno delle coalizioni di cui fanno parte.
Il Partito del popolo danese è un perfetto esempio di queste formazioni politiche. È fermamente contrario all’immigrazione e all’integrazione, ha proposto un blocco totale degli arrivi dai paesi non occidentali e dalla sua alleanza con la destra moderata ha ottenuto una riduzione del sussidio che viene versato ai rifugiati e leggi più severe per limitare i ricongiungimenti familiari. D’altro canto, il partito è contrario al taglio delle pensioni e della maggior parte dei sussidi ricevuti dai cittadini danesi. Alle elezioni del 2015, ha ottenuto il 20 per cento dei voti, soprattutto tra anziani e lavoratori giovani poco qualificati. Oggi, i suoi voti sono necessari a sostenere il governo di centrodestra di cui fa parte Mikkelsen.
Non è ancora chiaro che atteggiamento avrà il Partito del popolo danese nei confronti del piano di taglio delle tasse. Al momento, Mikkelsen non prevede alcuna riduzione dello stato sociale per finanziare il suo piano, anzi, in un’intervista ha detto che «è da pazzi pensare che un taglio delle tasse non possa coesistere con un buon sistema di welfare». Sindacati e socialdemocratici danesi, però, non sono d’accordo. Se è vero che l’attuale piano non prevede ulteriori tagli, le infrastrutture pubbliche danesi, il suo sistema sanitario e molti dei programmi di welfare vengono lentamente erosi dai tagli degli anni precedenti. «È chiaro che questo governo punta a fare l’interesse dei ricchi», ha detto Pernille Skippe, portavoce dell’alleanza Verdi-socialdemocratici: «Il sistema di welfare viene messo in soffitta, mentre spendiamo soldi per aiutare i più ricchi tra i ricchi».
Alcuni economisti, inoltre, sembrano contestare l’idea stessa alla base del piano di Mikkelsen, cioè che tasse e stato sociale abbiano creato nel paese un clima ostile all’impresa. Secondo la Banca Mondiale, la Danimarca è il terzo paese al mondo dove le condizioni sono migliori per fare impresa e l’economia del paese crescerà del 2,7 per cento nel 2017, un tasso di tutto rispetto per un paese così avanzato.
Tutte queste critiche potrebbero toccare le giuste corde nei leader del Partito del popolo danese, che sul tema non si sono ancora espressi, e in molti suggeriscono che non appena il piano di Mikkelsen arriverà in parlamento, i populisti proveranno ad annacquare i suoi elementi più controversi, che potrebbero non piacere alla base del suo elettorato. Soltanto nei prossimi mesi sapremo se il “modello nordico”, creato dalla sinistra socialdemocratica, sarà salvato dal più improbabile dei difensori, l’estrema destra populista.