11 canzoni degli Steely Dan
Da ascoltare oggi che è morto Walter Becker, che insieme a Donald Fagen mise insieme il duo più sofisticato ed elegante della storia del rock
Walter Becker, cofondatore e storico chitarrista del duo jazz rock degli Steely Dan, è morto oggi a 67 anni. Insieme al pianista e cantante Donald Fagen, raggiunse il successo negli anni Settanta con uno stile molto raffinato e inventivo, che mischiava tra loro molti generi. Queste sono le undici canzoni che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto per il suo libro Playlist.
Steely Dan (1972, New York, Stati Uniti)
Un duo di geni newyorkesi – Walter Becker e Donald Fagen – che misero insieme il duo più sofisticato ed elegante della storia del rock, partendo da cori soft rock e arrivando presto a inclinazioni jazz e perfezionismo da sala di registrazione (e fastidio complementare per i palcoscenici). Durano ormai da più di trent’anni facendo cose che sanno fare solo loro.
P.S. Sì, Fagen era del New Jersey, va bene.
Do it again
(Can’t buy a thrill, 1972)
Il primo singolo e il loro pezzo più celebre, un classico della programmazione radiofonica. Un mood molto on-the-road, che evoca deserti e radiatori fumanti, prima delle evoluzioni più jazzate e fredde che verranno nei dischi seguenti. E due assoli assai assurdi: uno è un sitar elettronico, l’altro un organo che pare raccolto dalla soffitta dei Doors. Eppure, quando in giro dicono “una canzone immortale”, si riferiscono a questa.
Reelin’ in the years
(Can’t buy a thrill, 1972)
“Are you reelin’ in the years…”, il ritornello più canticchiabile della loro carriera, ancora solidamente ancorato alla musica west coast, ma suonata dagli Steely Dan. Gli assoli di Elliott Randall sono tra i più celebrati della storia del rock. Suona lieta e solare, ma sfotte sarcasticamente un vecchio amico che si è troppo sopravvalutato (in questo, ricorda “Positively fourth street” di Dylan): “Mi dici che sei un genio da quando avevi diciassette anni: in tutto ‘sto tempo ancora devo capire per cosa”.
Turn that heartbeat over again
(Can’t buy a thrill, 1972)
“Oh Michael, oh Jesus”. Nella strofa si progettano e si conducono attività illecite a dir poco: nel ritornello si fa la faccia dei bravi bambini e si promette di essere buoni, spegnere la luce e mettere la maglietta di lana. Ma è il modo: “Oh Michael, oh Jesus”.
Pearl of the quarter
(Countdown to ecstasy, 1973)
Il “quarter” è il French Quarter di New Orleans (le “perle” locali di solito conducono professioni disdicevoli), che induce a una tiritera sull’espressione “voulez vous” che sarebbe stata poi ritentata più notoriamente in “Lady Marmalade”.
Night by night
(Pretzel logic , 1974)
Pezzone di fiati funkeggiante, con cui Fagen e Becker volevano tornare al singolo di successo (ci riuscirono, ma con “Rikki don’t lose that number”, nello stesso disco) con tanto di assolo di chitarra: indovinarono il passaggio dove dice “if it’s wrong or if it’s right” e bastò.
Rose darling
(Katy lied, 1975)
Fantastica canzonetta che prepara un allegro tradimento, e Donald Fagen ne è così eccitato che quasi gli scappa da ridere. Tutto il contrario di “Tanta voglia di lei” dei Pooh: qui la tradita che sta dormendo (malgrado “i suoni umidi del nostro amore”) è evocata con un misto di sollievo e compiacimento. “Stanotte le spore sono nel vento, non lo sentirai fino a che non cresce”: vedete un po’.
Black cow
(Aja, 1977)
«Il suono più pulito mai ascoltato da orecchie umane», sta scritto su un sito web di musica. Aja fu un album di bellezza chirurgica, eppure scaldato dalle melodie e dalla leggerezza dei cori. “Black cow” comincia che pare un flipper, e diventa via via un circo di suoni e citazioni jazz. Se vi comprate una di quelle ville moderniste tutte vetro sulle colline di Los Angeles, potete andare avanti a sentirla tutto il weekend.
Deacon Blue
(Aja, 1977)
Il pezzo più amato del disco più amato, anche per la tenerezza e l’autoindulgenza del ritratto – un po’ ironico, un po’ no – di un giovane aspirante dandy metropolitano moderno e dei suoi buoni propositi: “imparerò a suonare il sassofono…”. L’Alabama di cui si parla è la squadra di football soprannominata “the crimson tide”. La band scozzese dei Deacon Blue prese il nome da qui: “call me Deacon Blues”.
Hey nineteen
(Gaucho, 1980)
Gaucho fu l’ultimo disco prima di una lunga separazione: “Hey nineteen” è già una dritta di quello che sarà il successivo lavoro di Fagen da solo. Perfettina come le cose di Aja, ma più convenzionalmente canzonetta (arrivò decima in classifica). Racconta con geniale autoironia l’invecchiamento dei baby-boomers attraverso il corteggiamento di una diciannovenne che considera il protagonista un vecchio babbione e non ha la minima idea di cosa lui le stia dicendo: manco riconosce una canzone di Aretha Franklin, mannaggia. Non si spiega bene se lui finisca a ubriacarsi da solo o si risolva a far bere lei per chiuderla nell’unico modo possibile.
Everything must go
(Everything must go, 2003)
Freschi come una rosa, ancora nel 2003. Tali, quali, e perfetti. Buoni per sedersi, ordinare da bere, e godersi quel che resta della vita: “well, we’re goin’ out of business, everything must go”.
Things I miss the most
(Everything must go, 2003)
Il narratore è stato lasciato dalla ragazza, e succede: “Non mi spaventa la solitudine, e non mi mancano i litigi. Passo la giornata sul divano a leggere il giornale. Mi trascino per casa, costruisco un Andrea Doria di balsa. E poi, a un tratto, realizzo cosa mi manca di più”. Già, cosa? Beh, “parlare, il sesso, qualcuno di cui fidarsi”. E poi? “L’Audi TT, la casa al mare, la sedia di Eames, le padelle di rame, la Stratocaster del ’54”.