In Myanmar le cose vanno male
400 persone sono morte negli scontri tra ribelli rohingya ed esercito, quasi 40mila persone sono fuggite e ci sono testimonianze di eccidi
L’esercito del Myanmar (o Birmania) ha detto che nell’ovest del paese quasi 400 persone sono morte nei violenti scontri tra ribelli della minoranza musulmana rohingya e militari, che vanno avanti dal 25 agosto nello stato nord-occidentale del Rakhine. I morti sono 399, quasi tutti rohingya (soltanto 29 sono soldati dell’esercito regolare). Ieri i cadaveri di 26 persone di etnia rohingya, donne e bambini, sono stati trovati sulle sponde del fiume Naf in Bangladesh: erano tra le migliaia di persone che si stanno spostando per fuggire alle violenze tra ribelli ed esercito, e si pensa che siano annegati dopo che le tre imbarcazioni su cui viaggiavano si sono capovolte. Secondo le stime delle Nazioni Unite, le persone che hanno abbandonato le proprie case per fuggire in Bangladesh sono 38mila; secondo l’International Organization for Migration (IOM) i rifugiati arrivati in Bangladesh dal 25 agosto sono almeno 18mila. Molti dei villaggi dei rohingya sono stati bruciati.
Ci sono però testimonianze secondo le quali le violenze che stanno avvenendo in questi giorni nel Rakhine sono ancora più grandi, e peggiori. Chris Lewa, direttrice del gruppo di attivisti per i diritti dei rohingya Arakan Project, ha detto al Guardian che 130 persone sono state uccise dall’esercito del Myanmar nel villaggio di Chut Pyin: l’esercito avrebbe circondato il villaggio e poi ucciso le persone che fuggivano, secondo quanto riferito dai testimoni. I giornalisti non possono entrare nello stato del Rakhine, e perciò è difficile reperire informazioni precise sulla situazione: provengono soprattutto dalle ong attive in Myanmar e dai racconti dei testimoni delle violenze. Secondo le autorità sono stati gli stessi rohingya a dare fuoco ai loro villaggi, ma questa versione è stata smentita da Lewa.
Il gruppo di attivisti Fortify Rights ha diffuso un comunicato in cui ha detto che a Chut Pyin c’è stato un eccidio, e ha riportato la testimonianza di un uomo sopravvissuto che ha raccontato che i membri della sua famiglia sono stati uccisi in modi terribili: i loro corpi, abbandonati in un campo, avevano segni di proiettili e di tagli; i suoi nipoti, due bambini di 6 e 9 anni, erano stati decapitati.
Un gruppo di rohingya poco dopo aver attraversato il confine tra Myanmar e Bangladesh, il primo settembre 2017 (AP Photo/Bernat Armangue)
I rohingya appartengono a una delle minoranze più perseguitate al mondo. Sono musulmani e vivono per lo più nello stato del Rakhine: sono poco più di un milione, in un paese dove la stragrande maggioranza delle persone è buddista. Gran parte delle discriminazioni a cui sono sottoposti i rohingya sono legali e realizzate dal governo in maniera ufficiale. Nel 1982, per esempio, ai rohingya fu tolta la cittadinanza birmana, perché il governo li accusava di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui il Myanmar prese l’indipendenza e divenne una colonia britannica. Non avendo la cittadinanza, i rohingya sono diventati cittadini di “serie B”: hanno grosse limitazioni per quanto riguarda l’accesso all’istruzione – motivo per cui molti di loro hanno soltanto un’istruzione religiosa, a volte di tipo fondamentalista – alla sanità e alla proprietà di terreni. Non hanno nemmeno il diritto di voto, perciò non hanno potuto partecipare alle elezioni del 2015, quelle vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NDL).
Dallo scorso anno la loro situazione è ulteriormente peggiorata: il governo birmano ha infatti deciso di ritirare loro le “carte di identità temporanee”, trasformandoli in tutto e per tutto in apolidi, cioè persone prive di nazionalità.
Aung San Suu Kyi, nota attivista birmana per i diritti umani, premio Nobel per la pace nel 1991 e leader della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito di governo, ha condannato gli attacchi dei ribelli rohingya, accusandoli di avere assaltato trenta centrali di polizia e una base militare, mentre non ha parlato degli abusi compiuti dalle forze di sicurezza. Non è la prima volta che Suu Kyi si esprime in questi termini: per esempio lo scorso aprile aveva negato in un’intervista data a BBC che in Myanmar fosse in atto una pulizia etnica nei confronti dei rohingya – «è un’espressione troppo forte», aveva detto – nonostante i molti episodi che sembravano dimostrare il contrario.