Volete vedere un video? E un altro? E un altro ancora?
Sempre più giornali stanno investendo in video invece che in articoli, spinti da Facebook e dalla pubblicità, ma non è detto che sia quello che vogliono i lettori
Ad agosto il sito americano di news Mic, rivolto soprattutto a persone giovani e che punta molto su Facebook, ha licenziato 25 dipendenti, per via di una riorganizzazione che darà maggiore priorità alla produzione di video. Ora circa la metà delle 63 persone che ci lavorano hanno incarichi che riguardano questo settore. Quello di Mic non è un caso isolato, ma è un esempio di un fenomeno che da mesi sta riguardando tutto il settore dei media digitali, da anni nel mezzo di una dibattuta crisi dei ricavi e alla ricerca – finora infruttuosa – di nuovi sistemi per guadagnare facendo giornalismo online. Tra le molte soluzioni proposte e sperimentate per risolvere il problema dei bassi ricavi generati dalla pubblicità online, che per molti siti – compreso il Post – è l’unica fonte di introiti, diversi altri hanno messo i propri contenuti online a pagamento, o hanno offerto abbonamenti e iscrizioni a pagamento, mantenendo gratuiti i propri contenuti, come il Guardian. Ma c’è chi crede che il futuro del giornalismo online siano i video, anche se neanche in questo caso si è capito esattamente in che modo possa essere un settore redditizio.
Facebook, che è per molti siti di news una delle principali fonti di traffico, se non la principale, da mesi ha avviato una massiccia campagna per promuovere i suoi video, tentando di fare concorrenza a YouTube (e quindi a Google, che la possiede). Oltre un anno fa firmò con alcune testate giornalistiche (anche italiane) degli accordi che prevedevano un compenso alle testate che producessero video in diretta, conosciuti come Facebook Live. Nella primavera del 2017 il sito Recode rivelò che accordi simili erano stati stretti anche per la produzione di video “tradizionali”, cioè montati ed editati. Una delle testate internazionali che ha riscosso più successo con questo genere di video è AJ+, di proprietà di al Jazeera. I video vengono mostrati sul News Feed di Facebook con maggiore frequenza degli altri contenuti.
Inoltre, da qualche mese i video caricati su Facebook dalle pagine possono contenere inserzioni pubblicitarie. Non si tratta dei cosiddetti “pre-roll”, cioè le pubblicità all’inizio del video, che scoraggiano la visione di una rilevante percentuale di utenti, ma di pubblicità che cominciano in mezzo al video, della durata di pochi secondi. Facebook offre alle testate che hanno firmato l’accordo, tra cui il New York Times, BuzzFeed, il Washington Post e i siti di Vox Media, un compenso mensile in cambio di un certo numero di video in diretta e di video editati. Entrambi devono avere una durata sufficiente perché possano contenere un’inserzione: sei minuti per i primi, un minuto e mezzo per i secondi. Secondo le fonti di Recode, Facebook recupera i soldi dati alle testate dai ricavi delle inserzioni, e spartisce la parte restante: il 55 per cento alla testata e il 45 per cento per sé. Per Facebook riempire le timeline degli utenti di video di qualità prodotti da testate affidabili è anche un modo per allontanare le critiche di ospitare sempre più bufale e notizie di scarsa qualità.
I video online, secondo molte ricerche, stanno diventando una delle principali fonti di informazione per gli utenti dei social network, che in molti casi li preferiscono agli articoli tradizionali. Anche se è difficile, per ora, avere dati e statistiche a sostegno di questa tesi, di certo c’è che gli inserzionisti e Facebook sono convinti che questo sia il futuro (o perlomeno un futuro) dell’informazione online. Per le testate, le pubblicità contenute nei video sono spesso molto più redditizie dei tradizionali banner, un modello pubblicitario da anni considerato obsoleto e poco efficace, ma incapace di rinnovarsi.
I prezzi per le inserzioni pubblicitarie nei video sono molto variabili, ma nel mercato statunitense possono arrivare a quasi trenta dollari ogni mille visualizzazioni, a differenza dei banner tradizionali che in molti casi fruttano alle testate poche decine di centesimi se visti dallo stesso numero di persone, ha spiegato a Bloomberg Brian Mandelbaum, CEO di Clearstream, una società che si occupa di vendere inserzioni pubblicitarie nei video. Ormai, si ritiene che molti lettori abbiano sviluppato una specie di “cecità per i banner”: possono leggere un intero articolo senza accorgersi che intorno ci sono le pubblicità (e da qui i banner video, che si aprono e cominciano automaticamente quando si carica una pagina). Quelli all’inizio o a metà dei video, invece, sono praticamente impossibili da ignorare.
Chris Altchek, CEO di Mic, sostiene che «i lettori hanno parlato», per quanto riguarda le loro preferenze nei contenuti legati all’informazione: quelli di Mic passano il 75 per cento del loro tempo guardando contenuti visuali come i video, senza testo. Ma ci sono anche ricerche secondo le quali i lettori trovano le inserzioni contenute nei video online più fastidiose delle pubblicità televisive tradizionali. Un sondaggio dell’anno scorso del Pew Research Center dice che i giovani americani preferiscono leggere le notizie, invece che guardarle in un video. Per questo, c’è chi crede che la transizione verso i contenuti video non sia intrapresa dalle testate tanto per soddisfare un’evidente richiesta dei lettori, quanto per adeguarsi alle strategie commerciali di Facebook e degli inserzionisti, che per la maggior parte delle testate online sono imprescindibili. «Nessun sito si sta “spostando verso i video” perché lo chiede il pubblico. Lo stanno facendo perché l’industria è in mezzo a una crisi economica».
Facebook ha quindi il potere di influenzare radicalmente le strategie delle testate, con le proprie decisioni. Ma questa influenza non è vista di buon occhio: è vero che Facebook rappresenta una fonte di traffico fondamentale per la maggior parte dei siti di news, ma spesso la società ha ricevuto critiche per essere stata poco collaborativa con i giornali online. Andrew Morse, capo delle operazioni digitali di CNN, ha spiegato: «Facebook pensa a Facebook. Per loro, questi sono esperimenti, ma per le testate che vogliono impegnarsi in investimenti significativi possono rappresentare un po’ delle batoste».
Come spiega Bloomberg, alcune testate pensano che partecipare ai progetti di Facebook sia troppo dispendioso, sul lungo periodo, se paragonato agli effettivi introiti. Un esempio è rappresentato proprio dai video editati, che richiedono molto lavoro per essere fatti come si deve. Secondo i dirigenti di sei testate americane sentite da Bloomberg, Facebook continua a cambiare il tipo di contenuti richiesti, non paga abbastanza e non condivide abbastanza dati con i giornali. Alcuni di questi dirigenti hanno detto che ridimensioneranno gli impegni presi con Facebook, se le cose non cambieranno: lo ha già fatto il New York Times, che ha ridotto la produzione di video in diretta perché Facebook non pagava abbastanza, secondo una fonte di Bloomberg interna al giornale. La stessa persona, però, ha detto che il New York Times vuole investire nei video editati su Facebook, anche se richiedono ancora più risorse.