Vita da editor
Angela Rastelli ha lavorato su "Le otto montagne" di Paolo Cognetti, che ha vinto il Premio Strega, e spiega come si fa
di Arianna Cavallo – @ariannacavallo
«Con Cognetti l’editing è iniziato il giorno in cui mi ha chiesto di andare in montagna da lui. Mi ha portata a camminare, abbiamo solo camminato, ma per me è stata la prima volta che ho fatto editing con lui: ci siamo un po’ annusati, un po’ abbiamo capito come potevamo lavorare insieme, se io gli stavo dietro abbastanza col mio passo, se accordavo il respiro al suo, se gli facevo le domande giuste. Perché poi l’editing è soprattutto questo, fare le domande giuste». Fare le domande giuste e guadagnarti la fiducia della persona che hai davanti: è quello che devo fare anche io, penso, mentre ascolto Angela Rastelli, seduta davanti a me in un caffè di Milano. Rastelli è l’editor della narrativa italiana Einaudi che ha lavorato su Le otto montagne, il romanzo di Paolo Cognetti che ha vinto l’ultimo Premio Strega, il più importante premio letterario italiano. Per chi ha seguito la cerimonia: è la persona che Cognetti ha ringraziato per prima e che ha preso in braccio facendola volteggiare un po’: la fine liberatoria e felice di una spossante camminata.
Lo Strega è il più prestigioso premio letterario italiano e, pur tra critiche e polemiche, vincerlo è bello e gratificante: è la consacrazione per l’autore e una garanzia di copie vendute per la casa editrice. Per l’editor non c’è nessun riconoscimento, nemmeno il nome stampato in qualche pagina del libro (tranne pochi casi), ma nell’ambiente dell’editoria tutti si affrettano a farti i complimenti e il tuo nome si carica di sfumature di invidia e considerazione. Cose che già prima non mancavano a Rastelli, visto che lavora per una casa editrice prestigiosa e per autori come Domenico Starnone, Melania Mazzucco, Mario Desiati, Chiara Valerio, Paolo Giordano e Donatella Di Pietrantonio, candidata al prossimo Premio Campiello con L’Arminuta. Ma fuori dall’ambiente nessuno sa chi sei: ed è bene che resti così, mi ripete Rastelli più volte, risoluta nel non voler «entrare nel cono di luce di un’altra persona», perché «il lavoro di un editor è buono quando non si vede. Di un buon editor non si riconosce la mano, perché ogni libro ti chiede un lavoro diverso. L’editor dev’essere neutrale e trasparente, è l’autore che deve parlare, è il libro che deve avere visibilità».
L’anonimato e l’alto tecnicismo richiesti all’editor non rendono chiare le sue mansioni al di fuori dall’ambiente editoriale: è una figura confusa, visto come un nerd polveroso, quando invece gli è richiesto un confronto incessante con il mondo, una curiosità pervasiva, sottigliezza psicologica nel trattare con gli autori e furbizia nello stare al mondo. Per essere un abile editor ci vuole tutto questo, ma la ragione per cui si inizia è un’altra e la stessa per tutti: l’ossessione snaturata per il testo. Tra la prima stesura e la stampa di un libro si srotolano le moltitudini di riletture dell’editor, che lentamente si ammala e si incaglia in quelle parole in fila e in quei ritmi. L’editor rilegge, rilegge e rilegge, provando a far scricchiolare le impalcature del testo, vagliando viti che non siano allentate e accarezzando la superficie per preservare i lettori da ogni scheggia: deve tenere la trama, la credibilità del dialogo, il nome di un incrocio tra due vie, la crescita sentimentale dei personaggi. Ore di rimuginamenti finiscono nell’accorciamento di un paragrafo, nella precisazione di un colore, in una virgola tramutata in un punto e virgola. «L’editor può essere un complice, uno specchio, una figura maieutica, ma non è mai un co-autore», mi dice Rastelli, cortesemente perentoria. «Non ho una mia musica da suonare, io sono un’accordatrice di strumenti altrui. Il mio orecchio afferra le stonature e le cadute di un testo. Il mio lavoro è evidenziare dove, ma il testo rimane di un altro».
Angela Rastelli ha 41 anni e lavora in Einaudi dal 2004, dopo una laurea in Lettere all’università di Bologna e il master in editoria di Umberto Eco: «Sono entrata in casa editrice con uno stage, da lì sono rimasta e ho fatto tutta la gavetta: ho iniziato facendo la redattrice di narrativa e saggistica, poi man mano mi sono specializzata nella letteratura italiana iniziando un affiancamento con Dalia Oggero, che faceva già l’editor». Einaudi è l’unica casa editrice in cui ha lavorato e Rastelli ne parla con un certo orgoglio: è uno dei quattro editor della compatta redazione di narrativa italiana, insieme a Oggero, Marco Peano e Paola Gallo, che la dirige. «Siamo insieme da quasi dieci anni, siamo molto uniti, ci confrontiamo tantissimo sia sui testi da pubblicare che sull’editing dei testi. È un lavoro di squadra continuo: penso che sia uno dei punti di forza di Einaudi».
La figura dell’editor è di per sé ibrida e di confine, con mansioni che non si limitano al lavoro sul testo ma comprendono anche il lavoro di scouting, cioè la ricerca e la selezione di testi e autori da pubblicare. «Ogni anno a Einaudi arrivano migliaia di proposte da diversi canali: agenti letterari, dal sito della casa editrice, da intermediari, amici, da Facebook», mi spiega Rastelli. Gli editor sono aiutati nella prima scrematura del lavoro dai cosiddetti lettori: sono meno di dieci, ogni settimana si presentano fisicamente in casa editrice, ricevono i libri da leggere, solitamente più di uno a testa, di cui dovranno redigere una scheda con il riassunto della trama e un giudizio. «È fondamentale parlare con loro dal vivo: quando raccontano il libro capisci sempre qualcosa di più rispetto alla scheda», racconta Angela, facendomi già capire il peso che hanno in Einaudi il rapporto personale e il lavoro quasi artigianale. A quel punto inizia il lavoro dell’editor, che fattosi una prima idea del testo deve decidere se pubblicarlo o meno, una decisione che in redazione viene presa con un fitto scambio di opinioni e punti di vista: «Ci confrontiamo continuamente: a volte un editor non è sicuro se investire in un testo che ha letto e chiede consiglio a un collega, altre volte capita che si innamori di un libro e insista per pubblicarlo ricevendo la fiducia di Paola, che è la responsabile». Questo confronto denso e incessante prosegue anche nel lavoro di editing vero e proprio: «Capita che chieda a un collega di rileggere un testo in fase di revisione, oppure per una lettura finale».
Capita anche che siano gli stessi editor a procacciarsi un autore, se non a proporre a qualcuno – che mai aveva immaginato di farlo – di scrivere un libro. Su Cognetti, per esempio, Rastelli racconta: «Lo leggevo e volevo prenderlo in casa editrice da molto tempo. Poi è arrivata la possibilità di farlo e sono stata io a lavorare insieme a lui sul testo». All’epoca Cognetti aveva pubblicato alcuni libri minimalisti e metropolitani e poi Il ragazzo selvatico, il diario di montagna che racconta la crisi per cui si è trasferito da una grande città al rifugio in Val D’Aosta in cui vive: era un autore in crescita, atteso da molti editori. Alla fine l’ha spuntata Einaudi con un contratto per New York Stories, una raccolta di racconti sulla città selezionata da Cognetti, e per il romanzo, che allora era soltanto una proposta e un gruzzoletto di pagine.
Cognetti ha passato l’anno seguente ad accrescere quel gruzzoletto e a inviare i nuovi capitoli a Rastelli man mano che li finiva: doveva verificare la tenuta complessiva della trama e della scrittura, raccogliere pareri, stroncature e rassicurazioni. Solo alla fine di quell’anno, conclusa la prima stesura, Rastelli ha preso in mano la matita e con lo sguardo del primo lettore ha iniziato ad appuntare, ai margini, riflessioni, dubbi, suggerimenti puntuali, a saggiare il testo, smontarlo per assicurarsi che tutto funzionasse e si capisse. Poi il testo è stato inviato ai correttori di bozze per controllarne tutti gli aspetti ortografici – refusi, accenti, spazi e punteggiatura – ed è ritornato tra le mani di Rastelli per un’ultimissima rilettura. L’editor, spesso paragonato a una rassicurante baby-sitter dell’autore, sembra più una levatrice del testo: è la persona che fa nascere il libro, la prima a tenerlo tra le mani prima di consegnarlo al mondo, ad assicurarsi che sia davvero pronto.
Alcuni autori si interrompono a metà dell’opera e hanno bisogno di confrontarsi con l’editor per ritrovarsi, altri consegnano la prima stesura solo dopo il punto finale. L’editor deve mantenere questa capacità di gestire i tempi e le distanze anche quando non lavora direttamente con un autore, deve essere in grado di portare avanti il rapporto facendosi vivo senza essere pressante, informandosi sui suoi progetti, suggerendogli letture che potrebbero interessarlo. È anche in questo un lavoro di confine, dove un pranzo o una telefonata possono deviare inaspettatamente in un incontro di lavoro, così come sfogliare una rivista a colazione, guardare un programma in tv e divertirsi sui social network: attività rilassanti che per un editor possono far lampeggiare l’idea per un nuovo libro. Un giorno Ester Viola, che faceva l’avvocato ma era seguitissima su Twitter per le sue battute sulle relazioni sentimentali, si vide arrivare un messaggio privato su Twitter da Rastelli, con scritto: «perché non ci scrivi un libro su?». La risposta è L’amore è eterno finché non risponde. Mentre Le mie amiche streghe, il primo romanzo della giornalista Silvia Bencivelli, è frutto di una chiacchierata a cena con un amico scrittore: «Una sera Antonio Pascale mi disse “devi incontrare questa giornalista, parlavamo di quelli razionali e scientifici che finiscono per cedere a cose irrazionali, praticamente c’è già il titolo del libro pronto”». Rastelli la chiama e le propone di sviluppare dei personaggi, di trasformare le sue idee e i suoi articoli in un’opera narrativa. «Un libro con un tempismo perfetto, uscito esattamente nel momento in cui in Italia, era l’aprile scorso, l’argomento del giorno erano vaccini e omeopatia. Eppure era un libro concepito due anni fa».
E quindi ci vuole un sesto senso per fare l’editor, non basta saper soppesare il valore letterario del testo e le sue potenzialità commerciali: bisogna intuire sotto pelle dove sta andando il nostro mondo, di cosa parleranno e di cosa vorranno parlare le persone. «Io sono una lettrice media, sono una cartina di tornasole: sono onnivora, non sono snob, mi faccio emozionare: ci sono dei libri che magari non sono un granché ma ti prendono, funzionano, caspita se funzionano. E come editor questo mi interessa. Poi, ovviamente si sbaglia eccome», sorride Angela, e non provo neanche a chiederle a chi si riferisce.
Tutto questo non vale solo per l’anima di un libro, ma anche per la sua sembianza: se avete comprato un libro soltanto per la copertina e non ne siete stati traditi, è in parte merito dell’editor, oltre a quello ovvio di art director, grafico e iconografo, cioè la persona incaricata di trovare l’illustrazione di una copertina. Solitamente l’iconografo non legge il libro, se non qualche passaggio, ma se lo fa raccontare dall’editor, che indirizza la sua ricerca e filtra attraverso il suo gusto il sapore preminente del testo. Quell’atmosfera viene tradotta in immagini, e tra quelle immagini salterà fuori la copertina. Per Le otto montagne di Cognetti, c’è stato un lungo confronto con l’iconografa Monica Aldi, che dopo molta ricerca ha proposto di collaborare con Nicola Magrin, un illustratore che aveva già realizzato acquerelli sulle montagne; anche Cognetti lo conosceva perché aveva illustrato i libri di scrittori come Tiziano Terzani e Primo Levi. Magrin, che per chiudere il cerchio è un appassionato di montagna, ha letto alcune pagine e ha realizzato la copertina, una delle più belle dell’anno.
Chiedo a Rastelli cosa succede quand’è tutto finito, se le capita di ripensare ai personaggi di un libro che ha curato, di ritornare nelle loro case e nei loro luoghi. Mi torna in mente l’usuratissima frase da Il giovane Holden, quella su quando leggi un libro che ti piace e vorresti essere amico dell’autore per chiamarlo quando ti pare, e penso che Rastelli si trovi in questa posizione: forse lei, potendo, vorrebbe chiamare i personaggi, infilarsi nelle loro vite più di quanto abbia già fatto, indirizzare il loro futuro, chiacchierarci insieme. Nei suoi romanzi, diceva Hemingway, «I sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre solido. L’importante è quel che non si vede». L’editor è l’unica persona, oltre allo scrittore, a conoscere quei sette ottavi e ad accrescerne l’estensione: «A volte chiedo a un autore quant’è grande la stanza in cui si svolge una scena, se i personaggi sono in piedi o seduti: mi serve per capire se gli spostamenti, i tempi degli scambi delle battute tornano». Immagino la casa e l’ufficio di Angela pieni di foglietti con scribacchiati sopra gli alberi genealogici dei personaggi, la linea temporale dei loro viaggi, le piantine delle loro case. Capisco quindi quell’impalpabile lampo di sollievo nei suoi occhi quando mi risponde che chiudere con un testo è un’esperienza sempre un po’ traumatica: quando smetti di essere abitata dal libro, quando forzatamente qualcuno ti strappa la tua ossessione, quando già un’altra ti viene fatta cadere tra le braccia.
L’intervista è quasi finita, nei bicchieri c’è soltanto l’acqua sciolta sul fondo, è quasi sera, fuori c’è ancora luce, ai tavoli a fianco è iniziato il chiasso dell’aperitivo. «C’è un autore che vorresti ricordare?», le chiedo prima di spegnere il registratore. «Nico Orengo», mi risponde. «Ho lavorato ai suoi due ultimi libri prima che lui morisse, nel 2009. Era uno scrittore con molta esperienza, mentre io ero una giovane editor. Mi ha dato davvero tanta fiducia, mi ha insegnato che la chiave del mio lavoro è la fiducia», sorride.
Usciamo insieme, lei entra in stazione su un treno per Torino, io faccio quattro passi, mi siedo al solito bar, bevo qualcosa e inizio a sbobinare. Al tavolo dietro di me ci sono due ragazzi e il loro aperitivo: «E poi al mare ho letto un libro sulla montagna» «Ah quello che ha vinto lo Strega, volevo portarlo in vacanza anch’io. Ma com’è?». Probabilmente se Rastelli leggesse questo finale mi scriverebbe un appunto a margine «Ma sei sicura che sia credibile?» Finisce che sorrido anch’io.