Sta succedendo di nuovo, in Myanmar
Negli ultimi tre giorni ci sono stati scontri violentissimi tra ribelli della minoranza musulmana rohingya e forze di sicurezza birmane: sono morte 98 persone
Da tre giorni in Myanmar (o Birmania) vanno avanti scontri molto violenti tra ribelli della minoranza musulmana rohingya e forze di sicurezza birmane. Il governo ha detto che finora sono state uccise 98 persone, tra cui 80 ribelli. In migliaia hanno lasciato le loro case nello stato nord-occidentale del Rakhine, superando il confine ed entrando in Bangladesh. Gli scontri sono i più gravi in Myanmar degli ultimi mesi e le violenze potrebbero andare avanti per settimane, come era già successo lo scorso ottobre, quando un attacco dei ribelli rohingya aveva provocato una brutale operazione militare che aveva fatto parlare di gravi violazioni dei diritti umani.
I rohingya appartengono a una delle minoranze più perseguitate al mondo. Sono musulmani e vivono per lo più nello stato del Rakhine: sono poco più di un milione, in un paese dove la stragrande maggioranza delle persone è buddista. Gran parte delle discriminazioni a cui sono sottoposti i rohingya sono legali e realizzate dal governo in maniera ufficiale. Nel 1982, per esempio, ai rohingya fu tolta la cittadinanza birmana, perché il governo li accusava di essere immigrati dal Bangladesh dopo il 1823, anno in cui il Myanmar prese l’indipendenza e divenne una colonia britannica. Non avendo la cittadinanza, i rohingya sono diventati cittadini di “serie B”: hanno grosse limitazioni per quanto riguarda l’accesso all’istruzione – motivo per cui molti di loro hanno soltanto un’istruzione religiosa, a volte di tipo fondamentalista – alla sanità e alla proprietà di terreni. Non hanno nemmeno il diritto di voto, perciò non hanno potuto partecipare alle elezioni del 2015, quelle vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NDL).
Dallo scorso anno la loro situazione è ulteriormente peggiorata: il governo birmano ha infatti deciso di ritirare loro le “carte di identità temporanee”, trasformandoli in tutto e per tutto in apolidi, cioè persone prive di nazionalità.
Gli ultimi scontri hanno messo di nuovo sotto pressione Aung San Suu Kyi, nota attivista birmana per i diritti umani, premio Nobel per la pace nel 1991 e leader della Lega Nazionale per la Democrazia. Per anni Suu Kyi è stata il simbolo dell’opposizione alla dittatura militare in Myanmar e ha guidato la transizione verso un sistema democratico (transizione non ancora completata, comunque); oggi fa parte del governo in carica, dove ricopre i ruoli di ministro degli Esteri e di consigliere di Stato.
Suu Kyi ha condannato gli attacchi dei ribelli rohingya, accusandoli di avere assaltato trenta centrali di polizia e una base militare, mentre non ha parlato degli abusi compiuti dalle forze di sicurezza. Non è la prima volta che Suu Kyi si esprime in questi termini: per esempio lo scorso aprile aveva negato in un’intervista data a BBC che in Myanmar fosse in atto una pulizia etnica nei confronti dei rohingya – «è un’espressione troppo forte», aveva detto – nonostante i molti episodi che sembravano dimostrare il contrario. Pochi mesi prima un gruppo di 23 attivisti, formato da premi Nobel ed ex ministri di vari paesi del mondo, aveva scritto una lettera aperta al Consiglio di Sicurezza dell’ONU affinché intervenisse per mettere fine alla crisi dei rohingya: nella lettera veniva criticata in particolar modo Suu Kyi.
La situazione degli ultimi giorni sembra particolarmente grave. Oltre agli scontri tra forze di sicurezza e ribelli rohingya, ci sono stati molti episodi di violenza tra rohingya e abitanti non musulmani di alcune città dello stato di Rakhine. Un giornalista della città di Maungdaw ha detto al Guardian: «Gli scontri sono continuati tutto ieri sulla strada principale, e sono state messe molte mine. Non penso che le autorità locali abbiano abbastanza cibo per tutte le persone. Il prezzo dei beni sale di giorno in giorno». Intanto da venerdì duemila rohingya – soprattutto donne e bambini – hanno superato il confine con il Bangladesh e si sono stabiliti nei campi profughi messi in piedi dal governo bengalese.