L’Iran si sta facendo largo in Afghanistan
Tramite i talebani, con cui collabora da tempo: è una storia complicata che riguarda i fallimenti della guerra più lunga che gli americani abbiano mai combattuto
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
Il 21 maggio 2016 un drone statunitense colpì un taxi nel deserto del sud-ovest del Pakistan. L’attacco uccise l’autista del taxi e l’unico passeggero a bordo, il leader dei talebani Akhtar Mansour, l’uomo che aveva preso il posto del più noto Mohammed Omar, o Mullah Omar. Quello che successe quel giorno è rilevante per due ragioni: perché il bombardamento fu compiuto nella provincia del Belucistan, conosciuta per ospitare molti talebani ma fino a quel momento praticamente off limits agli americani per decisione del governo del Pakistan, che pure era ed è alleato degli Stati Uniti; e perché Mansour era appena tornato da un viaggio in Iran, dove era stato ricevuto da funzionari governativi iraniani, cioè da un governo che fino a qualche anno prima era profondamente nemico dei talebani. L’uccisione di Mansour ha fatto emergere nuovi e importanti dettagli su una storia poco raccontata, almeno sulla stampa italiana, cioè quella dei legami tra l’Iran e i talebani afghani, che potrebbe condizionare il futuro dell’Afghanistan e del suo debole governo guidato dal presidente Ashraf Ghani.
Quella dei legami dell’Iran con i talebani è una storia complicata, che coinvolge diversi paesi, ma che è importante per capire quello che sta succedendo in quel pezzo di mondo: c’entrano i fallimenti della guerra più lunga che gli americani abbiano mai combattuto, le enormi ambizioni del governo iraniano al di fuori dei suoi confini e l’atteggiamento ambiguo del Pakistan verso i talebani afghani e il terrorismo. L’ha ricostruita la giornalista Carlotta Gall sul New York Times, con il contributo di Ruhullah Khapalwak da Kabul, ma è oggetto da tempo di analisi e inchieste giornalistiche.
15 anni e mezzo fa, quando è iniziato tutto
Per capirci qualcosa bisogna tornare indietro all’ottobre 2001, quando gli americani invasero l’Afghanistan. Un mese prima al Qaida aveva ucciso quasi 3mila persone negli attentati a New York e Washington, i più gravi della storia contemporanea. I leader di quella che allora era la più grande e importante organizzazione jihadista del mondo avevano la loro base in territorio afghano e l’amministrazione statunitense di George W. Bush decise di intervenire per eliminarli. Nel 2001 l’Afghanistan era governato dal regime dei talebani, al potere da cinque anni e accusato di sostenere i terroristi di al Qaida. Gli americani riuscirono in poco tempo a sconfiggere i talebani e costrinsero i leader qaidisti a fuggire e nascondersi, prima in alcune zone dell’Afghanistan e poi in Pakistan. Uno dei paesi che appoggiò l’intervento degli Stati Uniti fu l’Iran, nonostante i due governi fossero nemici già da una ventina d’anni. Gli iraniani, a stragrande maggioranza sciita, vedevano con sfavore il regime sunnita talebano: nel 1998 l’Iran e i talebani afghani erano anche andati molto vicini a farsi una guerra, quando le milizie talebane uccisero diversi diplomatici iraniani durante alcuni scontri. Per l’Iran l’invasione americana in Afghanistan fu quindi un’opportunità da cui trarre vantaggio.
Una donna che indossa un burqa cammina davanti a un carrarmato dell’Alleanza del Nord, gli afghani che durante la guerra contro i talebani erano alleati degli Stati Uniti. Charikar, 30 chilometri da Kabul, 10 novembre 2001 (AP Photo/Marco Di Lauro)
Due anni dopo, nel 2003, gli americani intervennero in Iraq per destituire il regime sunnita di Saddam Hussein, altro acerrimo nemico dell’Iran (Iran e Iraq avevano combattuto una guerra violentissima negli anni Ottanta, poco dopo la rivoluzione khomeinista in Iran): di nuovo gli americani completarono la prima fase della guerra in poco tempo, smantellando il regime iracheno, ma non riuscirono a gestire la successiva insurgency guidata dai sunniti iracheni insoddisfatti per come si erano messe le cose (l’insurgency mette insieme tattiche di guerriglia, come attacchi mirati e coordinati a posizioni del governo nemico, e di terrorismo, come gli attentati suicidi). Come è noto, gli Stati Uniti stanno ancora subendo le conseguenze di quei due interventi: in Afghanistan la guerra non è mai finita – oggi gli americani continuano a combattere contro la ribellione dei talebani – mentre in Iraq i nuovi governi appoggiati dagli americani non sono mai riusciti a imporsi su tutto il territorio, alimentando divisioni e discriminazioni che hanno contribuito al rafforzamento di quello che oggi conosciamo come Stato Islamico (o ISIS).
Quello che successe tra il 2001 al 2003 fu molto importante per l’Iran. Nel giro di due anni il governo iraniano riuscì a sbarazzarsi di due regimi nemici (Afghanistan e Iraq), grazie agli interventi militari di un altro suo nemico (Stati Uniti). La fazione più aggressiva del suo regime – quella prevalente, dominata ancora oggi dagli ultraconservatori – sfruttò la nuova situazione: in Iraq si infilò nell’ampio mercato della ricostruzione post-bellica e sviluppò rapporti con il nuovo governo sciita, appoggiato dagli americani; in Afghanistan cominciò a sganciarsi dai suoi impegni e ad appoggiare i talebani, che intanto avevano cominciato la loro insurgency, con l’obiettivo di indebolire gli americani e convincerli ad andarsene.
A questo punto vale la pena specificare due cose.
Primo: qualcuno potrebbe obiettare che non ha senso una collaborazione tra Iran, paese sciita, e talebani, gruppo sunnita. In realtà, a differenza di quanto si pensa spesso, le divisioni tra sciiti e sunniti non spiegano tutte le guerre e le tensioni in Medio Oriente (solo per fare un esempio: in Siria molti arabi sunniti stanno partecipando all’operazione militare per riconquistare Raqqa, città controllata dallo Stato Islamico, gruppo sunnita). In passato lo stesso Iran ha avviato relazioni strategiche con gruppi sunniti: ha ospitato nel suo territorio alcuni esponenti di al Qaida che fuggivano dagli attacchi americani in Afghanistan e Pakistan e ha appoggiato le rivendicazioni di Hamas, gruppo palestinese sunnita, in funzione anti-israeliana.
Secondo: la collaborazione tra Iran e talebani continua ancora oggi non solo perché i motivi che ne giustificarono i primi sviluppi non sono scomparsi, ma anche perché se ne sono aggiunti altri. Per esempio sia l’Iran che i talebani sono nemici dello Stato Islamico. Gli iraniani e le milizie sciite a loro collegate stanno combattendo l’ISIS in Siria e in Iraq, mentre i talebani – alleati con al Qaida – si stanno scontrando con gli affiliati dell’ISIS in Afghanistan, per la supremazia del mondo jihadista e per il controllo del territorio.
Cosa ci dice l’uccisione di Mansour
Poco prima di essere ucciso nell’attacco nel deserto del Belucistan pakistano – ha ricostruito il New York Times parlando con ex talebani, funzionari del governo afghano e diplomatici occidentali – Mansour era stato in Iran. Si era incontrato con uomini del governo iraniano, e tramite loro con alcuni funzionari governativi russi. L’Iran e la Russia hanno confermato di avere avuto dei contatti con i talebani afghani, ma solo per raccogliere delle informazioni, mentre hanno negato altri livelli di cooperazione. Mansour, diventato leader dei talebani nel 2013 dopo l’annuncio della morte del Mullah Omar, aveva già sviluppato dei contatti con l’Iran negli anni Novanta. L’interesse comune era l’oppio afghano. In quegli anni i talebani facevano uscire l’oppio dal paese grazie alla collaborazione delle Guardie rivoluzionarie, un’unità di élite conservatrice dell’esercito iraniano molto potente che risponde direttamente alla Guida suprema, la più importante carica politica e religiosa dell’Iran.
Mohammad Omar (a destra) e Akhtar Mansour, in un’immagine pubblicata su un giornale afghano l’1 agosto 2015 (AP Photo/Rahmat Gul, File)
Dopo essere diventato il capo dei talebani, Mansour si pose obiettivi molto ambiziosi: cominciò a pensare a come differenziare le fonti di armi e soldi trasferiti al suo gruppo, facendo diversi viaggi all’estero: Dubai, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e naturalmente Iran. È probabile comunque che i contatti di Mansour con funzionari governativi iraniani non si limitassero solo a discussioni su nuovi rifornimenti e donazioni. Bruce Riedel, ex analista della CIA e ora analista del think tank Brookings Institution, ha detto che l’ultimo viaggio di Mansour in Iran servì per preparare alcuni attacchi coordinati in otto province afghane contro le forze di sicurezza del paese e contro gli americani.
Nell’ottobre 2016, quindi pochi mesi dopo l’uccisione di Mansour, i talebani iniziarono effettivamente un attacco coordinato in diverse città afghane, con l’apparente e ambizioso tentativo di riprendere il potere. Farah, la principale città dell’omonima provincia occidentale afghana, vicina al confine tra Afghanistan e Iran, fu assediata per tre settimane. L’assedio terminò solo dopo alcuni bombardamenti aerei americani a sostegno delle forze di sicurezze afghane, nei quali ci furono diversi morti: tra loro, si scoprì poi, c’erano anche quattro comandanti iraniani. Diversi talebani morti e feriti, inoltre, furono portati al di là del confine, in Iran, dove erano stati inizialmente reclutati. Il New York Times ha scritto: «Schierarsi con una forza di insurgency [i talebani] per prendere il controllo di una provincia [la provincia di Farah] mostrò una significativa e rischiosa escalation degli sforzi dell’Iran».
Che ci fosse una qualche forma di collaborazione tra Iran e talebani si sapeva da tempo, ma dall’uccisione di Mansour fino a oggi sono emersi nuovi e importanti dettagli. È venuto fuori per esempio che oltre a fornire armi e soldi ai talebani afghani, l’Iran si occupa anche del reclutamento di afghani sunniti in territorio iraniano (e ce ne sono molti: almeno due milioni di afghani si rifugiarono in Iran durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, negli anni Ottanta), di organizzare operazioni sotto copertura e di uccidere e rapire i nemici. Sembra che l’Iran sia anche riuscito a infiltrare alcuni suoi uomini in posti particolarmente rilevanti: uno dei casi più noti è quello di Daniel James, interprete britannico-iraniano dell’ex comandante NATO in Afghanistan, David Richards. Nel 2006 James fu accusato di mandare messaggi in codice ai militari iraniani a Kabul, passando loro informazioni riservate; è stato poi condannato a 10 anni di carcere. Un altro esempio della profonda interferenza iraniana negli affari interni dell’Afghanistan è quello che succede da tempo a Herat, città afghana poco più a nord di Farah, anch’essa vicina al confine con l’Iran. Il New York Times lo racconta così:
«A Herat si parla con accento iraniano. Sul lato delle strade ci sono scuole e librerie iraniane. Le donne indossano il chador nero che le copre dalla testa ai piedi, il tipo di abbigliamento favorito dall’Iran. I negozi sono pieni di dolci e altri prodotti iraniani. Nonostante sia una delle città più decorose e pacifiche dell’Afghanistan, a Herat si respira un’aria di continui intrighi. La città è piena di spie, agenti segreti e squadre d’assalto, dicono i funzionari locali, e negli ultimi anni ci sono stati diversi sequestri e omicidi. La polizia dice che l’Iran finanzia i gruppi di miliziani e la gang criminali. Un ex sindaco dice che l’Iran appoggia il terrorismo.»
Migliaia di sciiti afghani urlano slogan contro lo Stato Islamico nella città di Herat, dopo un attentato in una moschea in cui sono state uccise 33 persone (HOSHANG HASHIMI/AFP/Getty Images)
L’obiettivo dell’Iran in Afghanistan, sostengono diversi analisti, è contare sempre di più, mantenendo il governo afghano debole, in due modi: aumentando la sua influenza nelle province occidentali afghane, vicine al suo confine, come Farah e Herat; e sostenendo i talebani, che si oppongono anche alla presenza in Afghanistan degli americani e dello Stato Islamico, entrambi nemici dell’Iran. In questo senso è difficile dire se e quanto l’uccisione di Mansour abbia indebolito gli interessi iraniani in Afghanistan. Certamente l’Iran ha perso un importante interlocutore, ma il successore di Mansour, Hibatullah Akhundzada, non ha mostrato finora di avere intenzione di rompere i legami con il governo iraniano.
Diversa è la questione che coinvolge il Pakistan, che è un altro pezzo importante della storia. L’analista Kyle Orton ha scritto che l’aspetto più rilevante del viaggio di Mansour in Iran è che l’incontro fu sostenuto dal Pakistan. È un particolare rilevante perché il Pakistan è un paese alleato degli Stati Uniti, ma da anni i suoi servizi di sicurezza sono accusati di collaborare e proteggere i talebani afghani con l’obiettivo di mantenere l’influenza pakistana in Afghanistan e costringere le truppe americane ad andarsene. C’è però anche un altro aspetto da considerare. Secondo fonti governative americane citate dal New York Times, sarebbero stati proprio i pakistani ad aiutare gli Stati Uniti a individuare Mansour per l’attacco coi droni del maggio 2016: alcuni ipotizzano che il Pakistan abbia temuto che Mansour e i talebani potessero uscire dalla sfera d’influenza pakistana e avvicinarsi troppo ad altre forze straniere, come Iran e Russia. Questa versione, comunque, è stata smentita da alcuni esponenti del governo pakistano e da altre ricostruzioni, e ancora oggi non è chiaro come andarono le cose. Di certo c’è che l’atteggiamento futuro del Pakistan verso i talebani, e la collaborazione tra il governo pakistano e americano, saranno elementi che condizioneranno il tentativo dell’Iran di farsi largo in Afghanistan.