Come vanno i teatri dell’opera in Italia
Vanno male – peggio che all'estero, nonostante la loro grande tradizione – tranne due: uno è la Scala di Milano, e ok, l'altro è sorprendente e può insegnare qualcosa agli altri
Qualche settimana fa l’Economist ha pubblicato un articolo sulla situazione dei teatri dell’opera in Italia, ossia su quelle che oggi si chiamano fondazioni lirico-sinfoniche. L’Economist spiega che nonostante la tradizione dell’opera italiana sia una delle più celebri della musica lirica nel mondo, il numero di spettacoli in rapporto alla popolazione è ben al di sotto rispetto agli altri paesi europei, e soprattutto che su 14 fondazioni solamente due hanno una situazione economica positiva: la Scala di Milano, e questa non è una sorpresa, e il Teatro dell’Opera di Roma, e questa potrebbe esserlo un po’ di più, per chi non lo conosce.
Da dove arrivano i problemi dei teatri dell’opera italiani
Inizialmente le fondazioni lirico-sinfoniche erano disciplinate dalla legge 800 del 1967, che dichiarava il «rilevante interesse generale» dell’attività lirica e concertistica «in quanto intesa a favorire la formazione musicale, culturale e sociale della collettività nazionale», ragione per la quale ricevevano fondi pubblici. Attualmente le fondazioni lirico-sinfoniche in Italia sono quattordici, concentrate per la maggior parte nel nord del paese. Tre sono al centro (due delle quali a Roma), due al sud (Bari e Napoli) e due nelle isole (Cagliari e Palermo). Con il decreto legislativo 367 del 1996, questi enti sono stati trasformati in fondazioni di diritto privato con l’obiettivo di rendere disponibili risorse private in aggiunta ai finanziamenti statali, costituiti principalmente dal Fondo unico per lo spettacolo (FUS), il meccanismo attraverso il quale il governo italiano fornisce il principale sostegno finanziario a enti, istituzioni, associazioni, organismi e imprese del cinema, della musica, della danza e appunto del teatro.
Nell’agosto del 2013 è stata approvata la cosiddetta legge “Valore cultura” (legge 112/2013) promossa dall’allora ministro dei Beni e delle Attività culturali Massimo Bray: per il risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche in stato di crisi, stabiliva l’accesso a un fondo di 75 milioni di euro a certe condizioni (presentazione di un piano industriale di risanamento, riduzione fino al 50 per cento del personale tecnico amministrativo, razionalizzazione del personale artistico, previo accordo con le associazioni sindacali). La verifica era stata affidata a un commissario straordinario del governo. Nel 2015 era stato infine prorogato dal 2016 al 2018 il termine per il raggiungimento dell’equilibrio strutturale di bilancio per le fondazioni che avevano già presentato il piano di risanamento, poi sostituito con il raggiungimento del pareggio economico in ciascun esercizio e con il “tendenziale” equilibrio patrimoniale e finanziario. Nel corso degli anni sono state dunque stabilite molte disposizioni – e molto graduali e prudenti – per affrontare la crisi del settore lirico sinfonico, che avevano a che fare con modifiche della struttura organizzativa dei teatri, con piani di risanamento e con l’erogazione di risorse.
Nonostante i finanziamenti, gli interventi pubblici, i risanamenti, la situazione delle fondazioni in Italia però non è positiva, né dal punto di vista economico né dal punto di vista dell’offerta se paragonata a quella di altri paesi. In Italia ci sono 23 spettacoli per ogni milione di residenti, rispetto ai 139 dell’Austria e agli 83 della Germania. Anche la Lettonia, precisa l’Economist, ha quasi il doppio degli spettacoli dell’Italia.
L’Economist dice che i tagli dei governi a partire dagli anni Novanta sono una causa solo parziale dell’attuale situazione dei teatri d’opera italiani. Nei bilanci dei teatri d’opera degli Stati Uniti o del Regno Unito, per esempio, hanno un ruolo molto importante i finanziamenti dei privati, le donazioni e gli sponsor. L’Italia, invece, da questo punto di vista è in difficoltà, e non è un caso che una delle due fondazioni su quattordici che funzionano economicamente sia anche quella che raccoglie il maggior numero di finanziamenti privati: è la Scala di Milano, che ha dati positivi anche per quanto riguarda numero di alzate di sipario (cioè le singole esecuzioni dei vari spettacoli in programma), incassi di botteghino, numero di spettatori e di riconoscimenti della critica.
La diversificazione dei finanziamenti e la difficoltà delle raccolte fondi sono i punti su cui si insiste anche nella relazione sui primi sei mesi del 2016, la più recente, del commissario straordinario per le fondazioni liriche, Gianluca Sole. La prima grave difficoltà riguarda i diffusi indebitamenti accompagnati da una debole dotazione patrimoniale. I costi totali per alzata di sipario e i costi di produzione sono stati contenuti, ma i costi del personale continuano a incidere sul totale con una percentuale superiore al 60 per cento. I grafici, che fanno parte della relazione del commissario straordinario, mostrano lo scostamento rispetto agli obiettivi del piano per gli otto teatri che in base alla “legge Bray” hanno chiesto e ottenuto l’accesso al fondo di rotazione del governo per il risanamento.
Nonostante non sia complessivamente molto negativa, la gestione commerciale non è ancora in linea con il potenziale: il tasso di saturazione dei teatri è ancora molto basso e pari in media a meno del 45 per cento, con alcune situazioni positive come quella di Bologna, 68 per cento, e situazioni negative come quella di Genova, 25 per cento in media per alzata di sipario. La raccolta fondi è contenuta così come lo sono lo sviluppo di altre fonti di ricavo e la crescita sui mercati internazionali.
I dati sui ricavi da biglietteria per spettatore, poi, confermano la rigidità delle politiche di prezzo di alcune fondazioni che, nonostante abbiano un basso tasso di spettatori per spettacolo rispetto alla potenziale capienza del teatro, hanno un ricavo medio di biglietteria per spettatore elevato. La leva del prezzo non viene utilizzata per riempire le sale: in altre parole i biglietti costano troppo, visto quanti posti rimangono vuoti.
Cosa funziona al Teatro dell’opera di Roma?
Come mostrato nella relazione, e qui si arriva all’altra interessante storia di successo, il teatro dell’opera di Roma si differenzia rispetto alle altre fondazioni. Presenta elevati costi di produzione per alzata di sipario e costi totali per alzata, più che doppi rispetto alla media, ma il numero di spettatori per alzata rispetto alla capienza del teatro è decisamente buono, il risultato d’esercizio è positivo (ci sono stati degli utili, dunque), i debiti si sono contratti (nonostante la dimensione dell’indebitamento complessiva sia tuttora molto elevata e pari a circa 47 milioni di euro) e i crediti si sono ridotti.
Nel 2014 il consiglio di amministrazione del teatro dell’opera di Roma – che era presieduto dal sindaco di Roma Ignazio Marino – aveva approvato una procedura per fare in modo che orchestra e coro fossero gestiti con un servizio esterno, e che fosse avviata quindi una procedura di licenziamento collettivo. La decisione era arrivata dopo mesi di crisi, dissidi, accuse interne e scioperi. Pochi mesi prima, inoltre, Riccardo Muti, nominato direttore onorario a vita nel 2011, aveva annunciato la sua rinuncia a dirigere l’Aida e gli altri appuntamenti previsti per la stagione. La situazione era però rientrata quando il sovrintendente Carlo Fuortes aveva firmato un accordo con i sindacati con il quale era disposto a mettere da parte il piano di licenziamento collettivo e l’ipotesi di esternalizzazione in cambio di una rinuncia, da parte dei musicisti, ad alcune indennità.
Oltre a questo Fuortes ha cercato di attrarre nuovo pubblico. Ha creato dei biglietti più economici per i giovani e ha aumentato offerta e numero degli spettacoli. Inoltre ha avviato un programma per giovani artisti chiamato “Fabbrica” che, si dice nel sito, «dà la possibilità a nuovi talenti italiani e stranieri, già formati presso conservatori e accademie, d’inserirsi nel mondo dello spettacolo». I cantanti, i registi, i maestri collaboratori, gli scenografi e i giovani costumisti di volta in volta assunti nel progetto hanno ricevuto una borsa di studio mensile e la possibilità di seguire «un percorso personalizzato misto di studio e lavoro presso il Teatro dell’Opera di Roma». Questo ha permesso al teatro di aumentare e differenziare la produzione risparmiando sui costi. Inoltre Fuortes ha cercato di raggiungere nuovo pubblico attraverso il progetto Opera Camion, un camion appositamente attrezzato per contenere una semplice scenografia che è stato portato in alcune piazze della periferia romana e nel quale sono state messe in scena parti selezionate degli spettacoli d’opera. La partecipazione è gratuita e Fuortes ha detto che intende espandere il progetto.
Le innovazioni di Fuortes sono state raccontate anche dall’Economist, e sembrano funzionare. Secondo una recente ricerca il 42 per cento del pubblico del teatro dell’opera di Roma ha meno di due anni di frequentazione, il 30 per cento è composto da giovani, il 33 per cento da non residenti a Roma (di questi il 13 per cento è straniero) e solo il 47 per cento è costituito da abbonati e habitué. Il 94 per cento del pubblico si dice soddisfatto della programmazione artistica e degli spettacoli proposti; il 75 per cento ha percepito un cambiamento positivo della programmazione rispetto al passato. Il suggerimento dell’Economist è che nonostante i tagli ai contratti di lavoro («significa che i lavoratori devono fare di più per meno soldi»), anche gli altri teatri d’opera italiani debbano attuare «un piano in stile Fuortes, che potrebbe essere la loro migliore speranza». Il problema del teatro dell’opera di Roma resta però il forte indebitamento e il commissario del governo ha sottolineato nella sua relazione come le sue dimensioni non possano essere coperte dalla gestione corrente.