Forse stavolta Trump l’ha detta troppo grossa
Pure per i suoi standard, dicono gli esperti: minacciare cose a cui non può dare seguito – come ha fatto martedì con la Corea del Nord – gli fa perdere credibilità
Martedì sera il presidente statunitense Donald Trump ha minacciato di colpire la Corea del Nord con «il fuoco e la furia, e sinceramente anche la forza, a un livello che questo mondo non hai mai visto prima», se il regime nordcoreano continuerà a fare minacce dirette contro gli Stati Uniti. In pratica Trump ha detto che la sua amministrazione è pronta a usare l’arma nucleare per rispondere a minacce verbali – a minacce verbali, non a un attacco militare – provenienti dalla Corea del Nord.
«Donald Trump ha pronunciato pubblicamente la minaccia più incendiaria fatta da un presidente negli ultimi decenni», ha scritto CNN; «I duri commenti di Trump sono andati ben al di là del fermo ma misurato linguaggio generalmente preferito dai presidenti americani quando si parla di Corea del Nord», ha scritto il New York Times. Mercoledì mattina Trump è tornato sulla questione e ha scritto due tweet implicitamente riferiti alla Corea del Nord ed esplicitamente al nucleare americano: «Il mio primo ordine come presidente è stato rinnovare e modernizzare il nostro arsenale nucleare. Ora è forte e potente come mai prima. Speriamo di non dover mai usare questo potere, ma non ci sarà un tempo dove non saremo la nazione più potente del mondo!»
My first order as President was to renovate and modernize our nuclear arsenal. It is now far stronger and more powerful than ever before….
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) August 9, 2017
…Hopefully we will never have to use this power, but there will never be a time that we are not the most powerful nation in the world!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) August 9, 2017
Poche ore dopo le minacce di Trump, l’esercito nordcoreano ha detto con un comunicato che Kim Jong-un aveva dato ordine di valutare un piano di attacco contro l’isola di Guam, dove si trova una delle basi militari statunitensi più vicine alla Corea del Nord. In sostanza la Corea del Nord non ha ritenuto credibile la minaccia di Trump: non ha creduto possibile che di fronte alle sole minacce verbali – per quanto sostenute da grandi investimenti bellici – il governo statunitense fosse disposto a usare un’arma nucleare, un tipo di arma usata solo due volte nella storia dell’umanità: sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto 1945, alla fine di una lunga e sanguinosa guerra mondiale. Come era già successo in passato, Trump ha però fatto tutto da solo: come hanno ricostruito diversi giornalisti americani, le dichiarazioni di Trump non erano state concordate con il suo staff, non rispondono a un cambio di strategia verso la Corea del Nord decisa dalla sua amministrazione. Ore dopo l’annuncio, il segretario della Difesa, James Mattis, ha ridimensionato le parole del presidente, dicendo che l’immaginaria linea rossa superata la quale il governo americano sarebbe intervenuto in Corea del Nord non corrispondeva alle sole minacce verbali, ma a un qualche tipo di attacco militare nordcoreano, una cosa ben diversa. In pratica Trump ha parlato d’impulso e senza nessuna consapevolezza delle conseguenze, e i suoi consiglieri hanno fatto sapere che le sue minacce non devono essere prese sul serio.
È un problema per Trump che la Corea del Nord non abbia creduto alle sue minacce? Sì, e non da poco.
La credibilità nella politica internazionale è uno dei poteri più importanti di cui dispone uno Stato: è a sua volta una specie di arma. Serve per tenersi vicini gli amici e per imporre la propria volontà sui nemici. In entrambi i casi – quello che coinvolge stati amici e quello che coinvolge stati nemici – i meccanismi sono piuttosto intuitivi. Se l’alleanza tra lo stato A e lo stato B si basa sulla promessa che lo stato A in caso di attacco militare esterno contro lo stato B interverrà in difesa dello stato B, e quando l’attacco inizia lo stato A cambia idea e non interviene, vengono meno le ragioni dell’alleanza e lo stato B cercherà altri modi per garantire la propria sicurezza. A quel punto altri stati alleati dello stato A potrebbero decidere di fare lo stesso, ritenendo non più credibili le promesse fatte. Situazioni simili succedono in continuazione, non per forza dopo minacce militari: per esempio lo scorso maggio Trump fu criticato molto per avere “bruciato” una fonte di Israele infiltrata nello Stato Islamico, rivelando a esponenti del governo russo alcune informazioni riservate ottenute da quella fonte. Dopo che la storia venne fuori, raccontata dal Washington Post, diversi analisti parlarono di conseguenze rilevanti per la collaborazione tra le intelligence statunitense e israeliana: Israele avrebbe continuato a passare informazioni così delicate al governo americano, dopo quello che era successo, con il rischio che importanti fonti israeliane venissero scoperte e il lavoro di mesi mandato all’aria? E gli altri paesi alleati degli Stati Uniti?
La credibilità è altrettanto importante nei rapporti tra stati nemici, rapporti che funzionano per lo più sulla base delle minacce. Per funzionare, una minaccia deve essere credibile. Se un datore di lavoro minaccia di licenziare tutti i dipendenti che arrivano in ritardo, e quando succede si limita alle minacce senza licenziare nessuno, le sue parole non verranno ritenute credibili. Non è necessario comunque che il datore di lavoro licenzi effettivamente qualcuno per diventare credibile: se ha già dimostrato di dare seguito alle sue minacce, i suoi impiegati gli crederanno e tenderanno a non arrivare tardi, così da evitare il licenziamento. Questi meccanismi valgono anche nei rapporti tra gli stati. Se lo stato A vuole convincere lo stato B a fare qualcosa, o a non fare qualcosa, può usare lo strumento della minaccia; ma affinché funzioni, la minaccia deve essere creduta dallo stato B. Trump voleva costringere la Corea del Nord a finirla con le minacce nei confronti degli Stati Uniti, e per raggiungere il suo obiettivo ha a sua volta minacciato i nordcoreani di usare l’arma nucleare. Ma non ha funzionato, per diversi motivi.
La Corea del Nord non ha creduto che Trump userà l’arma nucleare per rispondere a minacce verbali perché non ha ragione di pensare diversamente. Dopo il lancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, gli Stati Uniti non hanno mai più usato l’arma nucleare. Il mondo è sopravvissuto a mezzo secolo di Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, nonostante le continue e reciproche minacce di usare l’arma atomica: ma nemmeno durante la crisi dei missili a Cuba, il momento più grave e pericoloso della Guerra fredda, si arrivò allo scontro nucleare. La minaccia di usare l’arma atomica per rispondere a minacce verbali è così sproporzionata, così unica nella storia americana e del mondo, da risultare non credibile.
A questo punto Trump ha solo una possibilità per rendere la minaccia credibile: fare quello che ha promesso, cioè lanciare una bomba atomica sulla Corea del Nord alla prossima minaccia nordcoreana verso gli Stati Uniti (minaccia che c’è già stata, a ben vedere, ma ancora non è successo niente). Una cosa del genere però non sembra praticabile. Colpire la Corea del Nord con un’arma nucleare è un’opzione che è stata scartata – con motivi più che validi – da tutte le amministrazioni americane precedenti: non solo morirebbero migliaia di persone ma il rischio è che, una volta colpiti, i nordcoreani rispondano usando anch’essi l’arma atomica, se non contro gli Stati Uniti contro uno dei loro alleati della regione, Corea del Sud e Giappone. La Corea del Nord potrebbe usare anche armi convenzionali e fare danni enormi, perché potrebbe colpire Seul, la capitale sudcoreana, e uccidere centinaia di migliaia di persone.
Una via d’uscita per Trump – cioè un’opzione che gli permetterebbe forse di non perdere la sua credibilità – potrebbe essere un attacco molto limitato, magari usando armi convenzionali. Colpire la Corea del Nord sarebbe un’azione militare che non ha messo in pratica nessuna delle amministrazioni americane recenti. Anche in questo caso, comunque, ci sarebbero almeno due problemi. Il primo è che la rappresaglia americana avrebbe un’intensità molto minore rispetto a quella promessa nelle dichiarazioni durissime di ieri sera, e in futuro gli annunci di Trump potrebbero essere comunque presi con le molle dai suoi alleati e dai suoi nemici, riducendo l’efficacia dell’azione americana. Il secondo è che le conseguenze di tale operazione militare da parte degli Stati Uniti potrebbero portare a conseguenze imprevedibili, perché nessuno sa come potrebbe reagire Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano. Se Kim percepisse l’attacco come una minaccia alla sopravvivenza del suo regime, potrebbe reagire in maniera completamente sproporzionata: di nuovo, colpendo gli alleati degli Stati Uniti nella regione e dando inizio inevitabilmente a una guerra tra potenze nucleari.
Diversi giornalisti e analisti hanno scritto in queste ore che le minacce di Trump sono state improvvisate, non il risultato di una nuova strategia del governo americano. Trump ha voluto usare toni così eccessivi probabilmente per mantenere l’immagine da “duro” che ha voluto attribuirsi durante questi suoi primi mesi di presidenza, e che gli sta molto a cuore. Dopo le dichiarazioni di ieri sera, comunque, le opzioni per Trump sembrano essere due: non dare seguito alle sue minacce e perdere quindi un po’ di credibilità; oppure farlo, rischiando però una guerra che potrebbe avere dimensioni e conseguenze enormi (si parla di rischio: non è detto che un attacco limitato porterebbe necessariamente a una reazione spropositata della Corea del Nord). Questo è il motivo per cui le precedenti amministrazioni americane avevano evitato di fare minacce così sproporzionate e dirette alla Corea del Nord: per non trovarsi in questa situazione.