I 12 dischi finalisti del Mercury Prize 2017
E quindi altrettanti consigli per ascoltare musica nuova e spesso poco conosciuta, selezionata per il più prestigioso premio musicale britannico
Sono stati annunciati i dischi finalisti del Mercury Prize, il premio che viene assegnato ogni anno al miglior disco di artisti britannici o irlandesi. I candidati e i vincitori del premio sono quasi sempre prodotti da etichette musicali indipendenti, e il concorso è nato proprio per questo: creare un’alternativa alle logiche di mercato che dominano premi più celebri come – per rimanere nel Regno Unito – i Brit Awards. Non sono Grammy americani, insomma: il Mercury è invece un caso più unico che raro – possibile solo in un paese con l’attenzione al pop-rock che ha il Regno Unito – di premio seguìto, importante, con ricadute sul mercato, e che però compie scelte “di qualità”. È stato istituito nel 1992 dalla British Phonographic Industry e dalla British Association of Record Dealers (l’associazione britannica dei rivenditori di dischi). In origine il premio era sponsorizzato dalla Mercury Communications (un marchio della compagnia di telecomunicazioni Cable & Wireless), poi ha avuto diversi sponsor e da un po’ di tempo la BBC.
Tra i candidati di quest’anno, scelti da una giuria di giornalisti e addetti ai lavori, c’è però un nome che ha sorpreso in molti, perché uno dei più grossi del pop mondiale e non troppo amato dai critici: Ed Sheeran, che quest’anno ha fatto uscire Divide. È stato scelto anche I See You, l’ultimo disco degli XX, che hanno già vinto il Mercury Prize nel 2010; e il nuovo disco degli Alt-J, che il Mercury Prize lo hanno vinto nel 2012. Ci sono poi diversi rapper, un quartetto jazz e una cantante che in molti considerano più una poetessa. Il vincitore sarà annunciato il 14 settembre, durante la serata di premiazione a Londra. In passato il premio è stato vinto da artisti come Primal Scream, Suede, PJ Harvey, Pulp, Portishead, Arctic Monkeys, Antony and the Johnsons e Franz Ferdinand, Benjamin Clementine e l’anno scorso dal rapper Skepta.
Alt-J – Relaxer
Gli Alt-J (spesso lo trovate scritto ∆, che è quello che ottenete se schiacciate alt+J su certe tastiere) sono in giro da diversi anni, con il loro rock alternativo molto riconoscibile per la voce ruvida e trascinata del cantante Joe Newman, che sembra sempre che stia cantando l’ultima canzone prima di andarsene, con un po’ di fretta. Hanno avuto parecchio successo anche tra chi normalmente ascolta altri generi: all’inizio erano partiti più tranquilli, mentre nell’ultimo disco Relaxer ci sono alcune canzoni con un gran tiro e piene di chitarre elettriche. Tipo “In Cold Blood”, il singolo che è girato di più, e che ricorda un po’ i Black Keys.
The Big Moon – Love in the 4th Dimension
Fino a poco tempo fa erano conosciute solo in Inghilterra, ora se ne sono occupati anche siti e riviste internazionali di musica: sono quattro, sono di Londra e fanno dei concerti di cui si parla benissimo. Il loro primo disco è uscito ad aprile, e dentro ci sono soprattutto schitarrate grunge e suoni garage (cioè elementari e distorti, in modo da ricordare una registrazione artigianale).
Blossoms – Blossoms
Arrivano da Manchester, sono cinque e nati tutti nello stesso ospedale, e cresciuti a pochi isolati di distanza (lo hanno scoperto poi, quando si sono messi insieme). Sono nati nei primi anni Novanta, quindi erano troppo piccoli per vivere i tempi d’oro degli Oasis e degli Stone Roses, per non parlare dei Joy Division o degli Smiths. Ma fanno comunque musica che guarda indietro, agli anni Ottanta: sintetizzatori che sembrano usciti da un disco di Madonna, due chitarre due, e voci piene di riverbero.
Loyle Carner – Yesterday’s Gone
È un rapper nato nel sud di Londra nel 1995, che da piccolo ha avuto problemi di dislessia e deficit dell’attenzione. Prima ha studiato teatro, poi ha cambiato idea e si è messo a cantare, facendo uscire un EP nel 2014 e il suo primo disco quest’anno. Yesterday’s Gone è un disco di rap molto “vecchia scuola”: non ci sono l’AutoTune (cioè il software per migliorare l’intonazione della voce) o la batteria sincopata tipiche della musica trap, quella che da qualche anno va per la maggiore tra i rapper con meno di 25 anni (tipo Ghali, in Italia). Loyle Carner invece assomiglia più a gente come Chance The Rapper o Tyler, The Creator, che fanno un rap più cantato e vicino all’R&B. “The Isle of Arran”, il suo singolo di maggiore successo, si basa su un coro soul e una base che sembrano quelli di una canzone di Kanye West.
Dinosaur – Together, As One
I Dinosaur sono la nuova band di Laura Jurd, ventisettenne trombettista dello Hampshire da diversi anni segnalata come una delle più promettenti giovani musiciste jazz d’Europa. Ascoltando Together, As One, se si conosce un po’ la storia del jazz, è evidentissima la somiglianza con i dischi della fine degli anni Sessanta di Miles Davis, come Bitches Brew e In A Silent Way: ci sono gli stessi ritmi ossessivi, gli stessi organi Fender Rhodes sospesi per aria, gli stessi fraseggi improvvisi e strozzati di tromba (Jurd ha poi un timbro molto simile a quello di Davis). Ma ci sono meno cacofonie e stranezze, quindi possono provare ad ascoltarlo anche i non impallinati. Nel pezzo scelto come “singolo”, invece, c’è un’introduzione di tastiera e un riff di basso elettrico dai suoni un po’ più moderni.
Glass Animals – How to Be a Human Being
I Glass Animals erano arrivati tre anni fa con il disco Zaba e avevano smosso un po’ le cose, nell’indie britannico, perché erano una band emergente con uno stile già molto personale e potente, elettronico ed esotico. Da allora hanno fatto decine e decine di concerti in alcuni dei più importanti festival del mondo, e poi hanno fatto uscire il loro secondo disco, How to Be a Human Being. Rispetto al primo ci sono più fuochi d’artificio e varietà di generi – anche troppa, secondo alcuni critici – e i testi raccontano storie tristi o strampalate di persone che la band ha conosciuto negli ultimi anni.
J Hus – Common Sense
J Hus è uno da tenere d’occhio: ha 21 anni, arriva da Stratford, a est di Londra, ed è un rapper come quelli di una volta, con comportamenti ai margini della legalità e spesso nei guai con la polizia. Si è fatto cinque mesi di prigione per possesso d’arma da fuoco, l’anno scorso, e poco prima aveva rischiato di rimanerci in un accoltellamento. Al di là delle vicende extra-musicali, è uno dei pochi rapper inglesi di cui si sta parlando che non fa grime, il genere più diffuso e seguito, fatto di basi elettroniche e parti cantate musicalmente dure e spesso urlate. J Hus invece mischia molti generi, dall’Afrobeat alla trap alla dancehall, e usa metriche e testi per niente banali.
Sampha – Process
Sono anni che Sampha Sisay collabora con i nomi più grossi dell’hip hop, da Kanye West a Solange Knowles, ma il suo primo vero disco, Process, è uscito solo a febbraio. Ha 29 anni, è del sud di Londra, ha una gran voce e ai concerti suona sempre la tastiera. Spesso lo si vede insieme a SBTRKT, il progetto di Aaron Jerome, e ha una canzone tutta sua nell’ultimo disco di Drake. Process è un disco fatto soprattutto di canzoni complicate e un po’ sofferenti, e dietro ai testi c’è la morte di sua madre. Quella che è girata di più, però, è una ballad pianoforte e voce molto delicata e tradizionale.
Ed Sheeran – Divide
Può darsi che l’inclusione nei finalisti del Mercury Prize aiuti Ed Sheeran a scrollarsi di dosso quella fama di cantante e autore pop tanto talentuoso quanto poco figo, sotto praticamente tutti gli aspetti. Ma ci sono buone ragioni per credere di no: il suo ultimo tentativo, un cammeo in Game of Thrones, è finito con un sacco di prese in giro. Divide non aveva fatto impazzire i critici, e per ora ha prodotto soltanto una vera hit di quelle a cui ha abituato Sheeran, “Shape of You”.
Stormzy – Gang Signs & Prayer
Anche Stormzy è del sud di Londra, e anche lui è uno dei più affermati giovani rapper britannici. Il suo è puro grime, e in molti lo considerano una specie di erede di Skepta, probabilmente il più famoso rapper inglese di sempre, vincitore lo scorso anno del Mercury Prize. Stormzy ha fatto uscire il suo primo EP nel 2014, e Gang Signs & Prayer è il suo primo vero disco: se ne è parlato benissimo, ma deve piacervi il genere.
Kate Tempest – Let Them Eat Chaos
Kate Tempest è considerata una cantante e una poetessa: le sue canzoni sono fatte di basi ossessive sopra le quali lei rappa testi arrabbiati in cui parla di un sacco di cose, dai selfie all’inquinamento al degrado delle periferie londinesi dalle quali arriva. Let Them Eat Chaos racconta di sette sconosciuti che vivono nella stessa strada, e che si conoscono soltanto quando una tempesta li costringe a lasciare la propria casa.
The xx – I See You
Quando arrivarono gli XX, nel 2009 con il loro disco d’esordio, erano una cosa che effettivamente si era sentita poco prima, e sembrava che dovessimo ascoltare soltanto loro e che non potessero più fare una pubblicità di auto senza “Intro” come colonna sonora. Poi uscì Coexist, nel 2012, e sembrarono non saper bene in che direzione andare. In molti perciò aspettavano con curiosità I See You, che cinque anni dopo è sembrato molto più centrato e consapevole del precedente. I suoni sono più vari e pop, in molte canzoni, anche se ci sono ancora quelle basi che sa fare soltanto Jamie xx.