Pezzi d’Italia visti da fuori
Il New Yorker ha pubblicato una lunga inchiesta sul caso dello scambio di persona in un processo siciliano, ma anche sulla giustizia italiana, sull'antimafia, sull'immigrazione
Il New Yorker di questa settimana, uscito lunedì, ha pubblicato un lungo articolo dedicato a una storia italiana di cui si è parlato nei mesi scorsi ma mai con tanto approfondimento: quella del presunto trafficante di migranti sotto processo a Palermo che secondo molte credibili versioni sarebbe vittima di uno scambio di persona, errore che i magistrati che lo accusano non vogliono ammettere. L’articolo di Ben Taub sul New Yorker mette in fila le tantissime prove che sostengono la versione dell’imputato sbagliato – usando diverse fonti e approfondendo indagini a partire dal lavoro già fatto soprattutto dal giornalista siciliano Lorenzo Tondo – ma, come nel format consueto degli articoli del New Yorker, mette anche la storia nel contesto del sistema investigativo e giudiziario italiano, con conclusioni molto severe nei confronti del sistema stesso e dei magistrati siciliani.
La storia era stata riassunta così dal Post l’anno scorso:
L’uomo arrestato lo scorso 24 maggio in Sudan, estradato in Italia il 7 giugno e rinviato a giudizio lo scorso settembre, sarebbe Medhanie Tesfamariam Berhe, eritreo di 29 anni, e non Medhanie Yehdego Mered, uomo di 35 anni originario dell’Eritrea accusato di essere uno dei capi di una grande organizzazione con base in Libia che gestisce il traffico di migranti verso l’Europa, e coinvolto nei viaggi di almeno 13 mila persone.
Mercoledì 8 giugno il ministero dell’Interno italiano e la National Crime Agency del Regno Unito avevano annunciato con una certa enfasi l’arresto in Sudan e l’estradizione in Italia di Medhanie Yehdego Mered. I magistrati avevano intercettato per mesi il cellulare di Medhanie Yehdego Mered raccogliendo informazioni sul suo conto e sulle sue attività.
Dopo l’arresto, i media britannici avevano cominciato ad avere dei dubbi, scrivendo che la persona arrestata e ora sotto processo fosse in realtà Medhanie Tesfamariam Berhe: un eritreo di 29 anni che non era mai stato in Libia, che non ha niente a che fare con la presunta rete per il traffico di migranti e che si è dichiarato innocente. Con il trafficante, condivideva semplicemente un nome molto comune.
Da allora non è cambiato praticamente niente: quello che è accusato di essere Mered e che più probabilmente è Berhe, è tuttora detenuto e sotto processo a Palermo. L’articolo del New Yorker si conclude con il racconto dell’imputato in lacrime che lascia una recente udienza inconcludente: il processo è stato infatti appena affidato a un’altra corte su richiesta del pubblico ministero, Calogero Ferrara, coordinatore del «Gruppo tratta e immigrazione» della Procura di Palermo, che è il protagonista della prima parte dell’articolo del New Yorker, dove viene descritto nel suo progetto di assimilare le organizzazioni criminali che gestiscono i viaggi dei migranti a quelle mafiose siciliane, per poter adottare gli stessi strumenti di indagine e legali dei suoi colleghi magistrati siciliani che indagano sulla mafia.
«Ferrara è sicuro di sé e ambizioso, un uomo sulla quarantina con dei ricci castani, una barba curata corta e una voce profonda e grave. Alle pareti del suo ufficio sono appesi attestati dei suoi servizi e successi. Quando l’ho incontrato a maggio era seduto con i piedi sulla scrivania, gli occhiali con una montatura azzurra e un sigaro toscano. Gli scaffali erano carichi di raccoglitori contenenti migliaia di pagine di documenti: trascrizioni di intercettazioni e testimonianze per indagini importanti. Nel corridoio, poliziotti in borghese con la pistola nascosta sotto la t-shirt stavano in attesa di scortare i magistrati ovunque.
Ai pubblici ministeri siciliani sono attribuiti poteri enormi, in ragione della considerazione che li vede come l’unico ostacolo tra la società e Cosa Nostra».
Taub riassume ai lettori americani la storia di come la lotta contro la mafia in Sicilia abbia avuto un’intensificazione dagli anni Ottanta in poi, con il maxiprocesso prima e le reazioni alle stragi degli anni Novanta poi, a cominciare da quelle di Capaci e via D’Amelio in cui furono uccisi i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Dopo quegli omicidi, l’esercito mandò in Sicilia settemila soldati. Ai magistrati fu permesso di sorvegliare le comunicazioni di chiunque fosse sospettato di avere legami con il crimine organizzato»; e ancora maggior potere fu consegnato alla magistratura inquirente, spiega Taub, dalle indagini contro la corruzione politica degli anni Novanta. Lo stesso pm Ferrara spiega che nelle indagini contro la mafia «per cui siamo famosi a Palermo, si possono richiedere intercettazioni telefoniche e registrazioni con una quota di prove a carico dell’accusato assai più ridotta che per i crimini comuni. Significa che quando chiedi al giudice che sia disposta un’intercettazione, nel novantanove per cento dei casi la ottieni».
Con queste modalità di indagine, Ferrara e i suoi colleghi hanno messo sotto sorveglianza i telefoni di tantissime persone coinvolte nell’organizzazione dei viaggi dei migranti (l’hanno chiamata “Operazione Glauco”) e hanno anche tenuto d’occhio molto Facebook, e così hanno arrestato decine di persone, ma quasi tutte di limitate responsabilità e in molti casi persino ignare di commettere reati nel collaborare per soldi ai viaggi dei migranti. Nell’operazione, però, è stato individuato anche un presunto capo dell’organizzazione, un uomo di origine eritrea che risultava vivere a Tripoli, nato nel 1981: Medhanie Yehdego Mered. L’articolo del New Yorker lo descrive come l’organizzatore delle partenze di centinaia di profughi, ma anche come un uomo di poteri contenuti, responsabile di una rete spesso inefficace e male organizzata, lui stesso con progetti di fuga in Europa, soprattutto dopo il mandato di cattura emesso nel 2015 dalla procura di Palermo che lo mise in grande paura e allarme, secondo molte testimonianze (l’articolo del New Yorker racconta la storia di una giornalista svedese di origine eritrea – Meros Estefanos – che cura un programma radiofonico in Svezia sui profughi, e che spesso riceve telefonate dagli stessi trafficanti, compreso Mered). A un certo punto, attraverso l’agenzia britannica che indaga il crimine organizzato, delle informazioni dal Sudan sembrarono mostrare che Mered fosse a Khartum e i magistrati siciliani ne ottennero l’arresto e l’estradizione, con immediata conferenza stampa per annunciarlo e grande copertura sui media italiani e inglesi soprattutto.
«Le cronache giornalistiche andarono dall’implausibile all’assurdo. La BBC disse, sbagliando, che Mered governava “un impero milionario”. Un tabloid britannico sostenne che avesse dato milioni di dollari all’ISIS. La stessa agenzia anticrimine britannica (NCA) diffuse un comunicato che erroneamente affermava che Mered fosse “responsabile della tragedia di Lampedusa”. Nel frattempo la procura di Palermo fece sapere che Mered si paragonava a Gheddafi e che era noto tra i trafficanti come il Generale, malgrado l’unico riferimento a un tale soprannome venisse da una telefonata intercettata nel 2014 che, stando alla trascrizione ufficiale, aveva “un tono ironico”. Ferrara proclamò che Mered era “uno dei quattro trafficanti più importanti del Nordafrica”».
L’articolo del New Yorker riporta il primo interrogatorio di Mered da parte dei magistrati, tra i quali anche il Procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi, che gli chiese se aveva compreso le accuse nei suoi confronti.
“Perché mi dite che sono Medhanie Yehdego?”, rispose lui.
“Capisce le accuse che le sono rivolte?”, ripeté Lo Voi.
“Sì”, disse, “ma perché mi dite che sono Medhanie Yehdego?”
“Va bene, a parte il nome…”
Le immagini trasmesse in tutta Europa dell’arrivo in Italia del presunto Mered furono viste da molti eritrei che si convinsero non fosse il Mered che avevano conosciuto durante i loro viaggi, e da una donna eritrea che da molti giorni non aveva notizie di suo fratello, e lo riconobbe. Tutti si fecero vivi con la giornalista Meros Estefanos in Svezia, che decise di avvisare un collega al Guardian di Londra, il quale a sua volta coinvolse Lorenzo Tondo, un giornalista siciliano esperto di cose di mafia che collabora con diversi giornali internazionali. Tondo, che lo conosceva, avvisò Ferrara dei dubbi che gli erano stati esposti sull’identità dell’uomo arrestato e pubblicò un articolo sul Guardian: la procura annunciò allora un silenzio stampa sul caso.
«Negli anni passati le inchieste italiane sul traffico di migranti sono state orientate più da ragioni politiche che dalla ricerca della verità o della giustizia. Al momento degli sbarchi, gli agenti di polizia a volte minacciano i profughi di arrestarli se non identificano chi abbia guidato la barca, e poi accusano quest’ultimo di essere un trafficante. Solitamente l’accusato riceve un avvocato d’ufficio che non parla la sua lingua o che non ha il tempo e le risorse o la conoscenza della materia per costruire una difesa affidabile. Chi guidava una barca in seguito al cui affondamento sono morte delle persone è spesso accusato di omicidio. Centinaia di migranti sono stati condannati in questo modo, dando una patina di successo a una strategia fallimentare per rallentare le migrazioni».
Non avendo ottenuto niente con la rivelazione del possibile equivoco, Tondo convinse un avvocato che conosceva a difendere il presunto Mered: all’interrogatorio successivo fu chiesto all’indagato di dare i propri dati identificativi e lui scrisse su un foglio, nella lingua tigrina eritrea: “Mi chiamo Medhanie Tesfamariam Berhe, sono nato ad Asmara il 12 maggio 1987”. Da allora Berhe ha sempre sostenuto di essere Berhe, e non Mered con cui condividerebbe solo il nome Medhanie e il paese di nascita. Dice anche di avere lavorato come muratore e di essere stato ad Asmara – dove viveva con sua madre – nel periodo del 2014 in cui Mered, secondo l’accusa, compiva i traffici in questione a capo di una potente organizzazione internazionale. Dice infine di essere emigrato in Sudan in cerca di lavoro, aggiungendo al racconto molti dettagli confermati da parenti e conoscenti interpellati dai giornalisti. Stando al racconto del New Yorker, nella prima udienza in cui la difesa pose la questione dello scambio di persona, uno dei magistrati disse: «Vostro onore, al di là dei fatti esposti, si tratta dell’imputato giusto. Ci è stato consegnato come Mered: è scritto chiaramente [sui documenti di estradizione]: Mered».
Da allora in poi, sostiene il New Yorker, ogni nuova smentita all’ipotesi che l’uomo in arresto fosse Mered è stata sistematicamente ignorata dalla procura di Palermo; idem per ogni conferma che fosse Berhe. I più piccoli equivoci sono stati usati contro di lui (errori di traduzione e comprensione, ipotesi ignoranti delle dinamiche delle migrazioni, rapporti con altri eritrei emigrati, amicizie e post su Facebook travisati o citati parzialmente).
«Alla fine dell’udienza preliminare, un pm chiese a Berhe se era mai stato in Libia. Nella registrazione audio lo si sente dire “No”. Ma nella trascrizione qualcuno ha scritto “Sì” […] Come molti altri a Khartum, Berhe aveva sperato di raggiungere l’Europa. La sua cronologia su internet comprendeva un video su YouTube di migranti nel Sahara e una ricerca sulle condizioni del mar Mediterraneo. I magistrati lo considerarono una prova che fosse un trafficante. Peggio ancora, in un sms a sua sorella, aveva citato un “Ermias”; un trafficante con questo nome aveva messo in mare una barca che era affondata a Lampedusa. Alla fine di quell’interrogatorio non aveva più nessuna importanza che l’uomo in arresto fosse Medhanie Tesfamarian Berhe o Medhanie Yehdego Mered. “Importanti sono le prove, non l’identità”, mi ha detto Ferrara. “Conta solo poter dimostrare che le prove portano a quella persona”».
Secondo Taub, i magistrati non hanno mai mostrato interesse a parlare con i testimoni – i tanti migranti gestiti da Mered, per esempio – che avrebbero smentito la loro versione, ignorando deliberatamente ogni indicazione ricevuta dai giornalisti che hanno lavorato al caso: e addirittura aprendo indagini su alcuni profughi che erano stati portati dalla difesa a testimoniare, ottenendo così l’effetto di spaventarne altri. Lo stesso governo dell’Eritrea ha invano confermato a dicembre l’identità di Berhe in una lettera al suo avvocato. Secondo la procura, invece, quella di Berhe è un’identità falsa usata da Mered. «Non credo che interessi loro la verità. Preferiscono condannare un innocente piuttosto che ammettere di essersi sbagliati», dice la giornalista svedese Estefanos. A Berhe non fu nemmeno consentita, stando al New Yorker, la visita in carcere di sua sorella arrivata dalla Norvegia con suo figlio appena nato: perché non è stata considerata parente, in quanto si chiama Berhe, e non Mered come il detenuto.
Nel frattempo sono cresciute le pressioni della stampa: gli articoli del Guardian sono stati ripresi in Italia e lo scambio di persona raccontato come probabile in molti articoli. L’articolo del New Yorker espone come molto controversi i rapporti tra giornalisti e procure in Sicilia, fatti di trattative per ottenere informazioni e ricatti e minacce nei confronti dei giornalisti meno disciplinati (e spesso meno protetti da testate importanti). Il giornalista Piero Messina – che è indagato per la pubblicazione di una mai chiarita intercettazione telefonica del governatore Crocetta sul settimanale L’Espresso – racconta a Taub di intimidazioni e sorveglianze nei suoi confronti, e scarse risorse per reagire e fare indagini giornalistiche serie: «Qualche mese fa Repubblica gli ha pagato sette euro un articolo di 1200 parole sugli agenti nordcoreani che si trovano a Roma: “Ti pagano così poco che è un suicidio fare del giornalismo investigativo”»).
Taub è impressionato anche dalle libertà investigative dei pm italiani, che descrive ai lettori americani come abituati a indagare chiunque con pochissimi vincoli e poca trasparenza, e dall’uso esagerato delle intercettazioni telefoniche: «Anche se devono essere approvate da un giudice, ci sono molti modi per aggirare le regole», scrive Taub citando l’esempio che gli ha raccontato un agente di polizia di «mettere in una lista di numeri da sorvegliare per un’indagine legittima, un numero che non dovrebbe esserci e che si vuole controllare”». E l’articolo di Taub è anche molto severo nel sostenere – citando i pareri di giornalisti italiani – che la mafia siciliana sia ritenuta oggi assai più debole, ma che i primi a volerlo negare siano i magistrati, «per conservare una percezione pubblica eroica del loro lavoro». Il caso raccontato più estesamente è quello dell’inchiesta – clamorosa, ma che in effetti ha ricevuto e riceve moderate attenzioni sulla stampa nazionale italiana – contro la magistrata Silvana Saguto, responsabile dei beni confiscati alla mafia a Palermo. Inchiesta condotta dalla procura di Caltanissetta, il cui capo – Sergio Lari – la descrive al New Yorker come un’indagine contro «la mafia dell’antimafia». Lari (responsabile tra l’altro della seconda inchiesta sulla strage di via D’Amelio che ha svelato la falsificazione della prima indagine) dice di essersi fatto molti nemici negli ambienti politici e giudiziari siciliani: «Prima mi odiava la mafia. Ora l’antimafia. Un giorno mi troverete morto per strada e nessuno vi dirà chi è stato».
Taub racconta di essere infine riuscito a parlare al telefono con Mered, passando attraverso sua moglie, che aveva raggiunto e incontrato in Svezia dove vive. La donna ha detto a Taub di non sapere dove si trovi suo marito, ma che lui la chiama una volta al mese. Mered ha raccontato direttamente a Taub i suoi spostamenti degli ultimi anni e il suo arresto nel 2015 (negli Emirati Arabi Uniti, ha ricostruito Taub) per possesso di un passaporto falso. Quando Berhe è stato arrestato, Mered ha detto di aver saputo della propria presunta estradizione in Italia dalle voci che circolano in prigione. La detenzione di Mered spiegherebbe l’assenza dalle carte dei magistrati in Italia di telefonate dal suo numero sorvegliato e di aggiornamenti su Facebook in quel periodo. Secondo lo stesso Mered, gli investigatori italiani non sarebbero assolutamente in grado di comprendere dinamiche e meccanismi delle organizzazioni di trafficanti, che non c’entrano niente con quelle mafiose a cui sono abituati: nessuna gerarchia, nessun codice d’onore, solo soldi, azione, rischi e morte.
Berhe sta ancora aspettando il processo, detenuto da tredici mesi.