L’Iraq è ancora degli iracheni?
Non più, da un bel pezzo, e la responsabilità è soprattutto dell'Iran, che è diventato ancora più forte grazie alla guerra contro l'ISIS
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
Quando il 20 marzo 2003, più di 14 anni fa, i soldati americani invasero l’Iraq per destituire l’allora presidente iracheno Saddam Hussein, gli strateghi dell’amministrazione statunitense di George W. Bush avevano in testa un obiettivo chiaro: instaurare a Baghdad un regime amico, che fosse alleato degli Stati Uniti e che aiutasse gli americani a conservare la loro influenza in Medio Oriente. Dal punto di vista militare, quell’operazione fu un successo, almeno nel breve periodo: nel giro di poche settimane, Hussein fu deposto e le principali città irachene finirono sotto il controllo delle forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Da tutti gli altri punti di vista, però, fu un mezzo disastro. Il nuovo governo iracheno, pur mantenendo legami di amicizia con gli americani, cominciò ad aprirsi sempre di più all’influenza dell’Iran, un paese che fino a quel momento era considerato ostile e la cui espansione era osteggiata molto anche dagli Stati Uniti. Nell’ultimo decennio quel processo non si è mai fermato e anzi ha trovato nuovi stimoli e accelerazioni grazie alla guerra che l’esercito iracheno ha cominciato a combattere contro lo Stato Islamico (o ISIS). Si potrebbe dire che si sia creato una specie di cortocircuito nella strategia americana in Medio Oriente, o semplicemente che qualcuno ha preso un enorme abbaglio.
Intanto, un paio di cose per capire di cosa si parla. L’Iraq è un paese a maggioranza sciita, nonostante per molti anni sia stato governato da un presidente sunnita come Hussein. Dopo la destituzione e l’uccisione di Hussein, nel 2003, gli americani hanno sempre appoggiato governi guidati da sciiti. Il primo ministro in carica più a lungo è stato Nuri al Maliki (2006-2014), le cui politiche sono state definite da molti analisti fortemente settarie, e sono state incluse per esempio tra le cause della rapida espansione dello Stato Islamico nell’Iraq nord-occidentale, dove la popolazione sunnita è maggioritaria. In pratica, i soldati e i funzionari governativi sunniti lasciati a casa dopo la caduta di Hussein, insieme allo scontento successivo causato dalle politiche discriminatorie di Maliki, hanno alimentato i ranghi e la popolarità dello Stato Islamico – organizzazione sunnita – in alcune zone del paese. I governi iracheni, deboli e male equipaggiati per affrontare crisi di questo tipo, si sono rivolti sempre di più all’Iran, che ha approfittato della situazione partecipando ai progetti di ricostruzione post-conflitto e sostenendo alcune milizie sciite anti-americane (ed ecco il cortocircuito) che operavano soprattutto a Baghdad.
Una mappa che mostra la situazione di Siria e Iraq. In Iraq, a destra, sono prevalenti le forze governative alleate con le milizie sciite (in rosso), che hanno inflitto diverse sconfitte militari allo Stato Islamico (in grigio). Nel nord ci sono invece i curdi (in giallo), che in Iraq abitano il Kurdistan iracheno, regione autonoma dal governo di Baghdad, mentre in Siria il Kurdistan siriano, un territorio che funziona come uno stato ma che non è riconosciuto dalla comunità internazionale. In Siria, a sinistra, ci sono le forze di Bashar al Assad e i loro alleati, tra cui Hezbollah (in rosso); i ribelli sono invece segnati in verde chiaro (Liveuamap)
L’influenza iraniana in Iraq è diventata ancora più forte negli ultimi anni, grazie alla guerra che l’esercito iracheno, le milizie sciite e i peshmerga curdi – l’esercito del Kurdistan iracheno – hanno cominciato a combattere contro lo Stato Islamico. I primi segni evidenti dell’ingombrante presenza dell’Iran erano emersi durante l’offensiva di Tikrit, una città a circa 180 chilometri a nord di Baghdad che fino alla primavera 2015 era sotto il controllo dello Stato Islamico. Molte delle forze di terra impegnate in quell’operazione militare erano milizie sciite appoggiate dall’Iran, e tra le altre cose si era parlato del coinvolgimento di Qassem Suleimani, potente generale e capo di una unità d’élite dell’esercito iraniano. Già allora gli Stati Uniti si erano trovati in una posizione difficile, perché sulla carta – e non solo sulla carta – stavano combattendo nello stesso schieramento dei loro nemici iraniani, gli stessi che anni prima avevano alimentato gli attacchi delle milizie sciite contro i militari americani dopo l’invasione dell’Iraq. Una situazione simile si è ripetuta durante la battaglia di Mosul, formalmente terminata solo pochi giorni fa, a cui hanno partecipato anche le Forze di mobilitazione popolare (PMF, la sigla in inglese con cui sono più note), cioè una coalizione di milizie sostenute dall’Iran, alcune delle quali considerate dagli Stati Uniti “organizzazioni terroristiche”.
Una foto di Qassem Suleimani (Facebook di Qassem Suleimani)
Il problema è che le milizie appoggiate dall’Iran non sembrano avere alcuna intenzione di andarsene, una volta finita la guerra. Fin dall’uccisione di Saddam Hussein, l’Iran ha cercato di farsi largo in tutti i settori della società irachena, oltre che ottenere spazi militari. Il giornalista Tim Arango ha scritto sul New York Times:
«Se si cammina in tutti mercati dell’Iraq, si vede che gli scaffali sono pieni di beni provenienti dall’Iran – latte, yogurt e pollo. Se si accende la televisione, ci si accorge, canale dopo canale, che tutti i programmi simpatizzano per l’Iran. Viene costruito un nuovo edificio? È probabile che il cemento e i mattoni arrivino dall’Iran. E quando i giovani uomini iracheni prendono delle pillole per “sballarsi”, è probabile che le droghe illecite siano state trafficate tramite il poroso confine con l’Iran. E di cose simili ce ne sono molte altre.»
A un nuovo checkpoint costruito al confine tra Iraq e Iran, ha raccontato Arango, i camion carichi di cibo e altri beni vanno in un’unica direzione, verso ovest. Oggi l’Iraq non ha praticamente niente da offrire all’Iran: «Ad eccezione del petrolio, l’Iraq dipende dall’Iran per tutto», ha detto Vahid Gachi, il funzionario iraniano responsabile del trasferimento di beni tra i due paesi. Al tempo stesso l’Iraq sembra ormai essere in balia delle richieste iraniane. Secondo giornalisti e analisti, l’uomo che dal 2003 si occupa di fare gli interessi iraniani in Iraq – ma non solo in Iraq – è Qassem Suleimani, il generale iraniano ampiamente coinvolto nelle operazioni militari a Tikrit. Oggi Suleimani ha un potere enorme in molte zone, tra cui la provincia irachena di Diyala, al confine con l’Iran, un’area molto importante per creare un passaggio che arrivi in Siria e in Libano. Qui le milizie sciite che rispondono all’Iran sono state accusate di compiere discriminazioni e violenze settarie, costringendo per esempio i sunniti locali a lasciare le loro case di modo da creare una specie di “zona cuscinetto”, vicino al confine iraniano, dove esercitare maggiore controllo.
L’Iran esercita una notevole influenza anche sul Parlamento iracheno, sul ministero degli Interni e sulla polizia federale dell’Iraq. Lo scorso anno il Parlamento iracheno ha approvato una legge che ha reso di fatto permanenti le molte milizie sciite che ricevono appoggio dall’Iran. La questione dell’influenza dell’Iran sull’Iraq si riproporrà più chiaramente alle prossime elezioni parlamentari irachene, fissate per il 2018: alle elezioni dovrebbero partecipare Nuri al Maliki, considerato molto vicino al governo iraniano, e l’attuale primo ministro Abadi, considerato invece più vicino agli Stati Uniti. Quando più di una settimana fa Abadi è andato a Mosul per annunciare la vittoria dell’esercito iracheno sullo Stato Islamico, Maliki aveva già parlato: invece di congratularsi con il governo di Abadi, Maliki aveva attribuito la vittoria alle forze di sicurezza irachene e alle PMF, le milizie sciite, che erano state istituite dallo stesso Maliki nel 2014. Molte di loro sono formate da uomini addestrati dall’Iran un decennio fa con l’obiettivo di combattere i soldati americani in Iraq dopo l’invasione del 2003.
Nuri al Maliki, a sinistra, e Haider al Abadi a Baghdad, l’8 settembre 2014 (AP Photo/Hadi Mizban, Pool)
Ma qual è l’obiettivo dell’Iran?
L’obiettivo del governo iraniano sembra essere quello di creare una specie di corridoio che arrivi fino al Libano, che passi quindi per l’Iraq e la Siria. Il corridoio sarebbe controllato e “protetto” dalle milizie sciite legate all’Iran e potrebbe essere usato per trasferire armi e rifornimenti di altro genere ai gruppi alleati degli iraniani, sia a quelli che combattono in Siria a fianco del presidente siriano Bashar al Assad, sia ad Hezbollah, il potente gruppo sciita libanese che oltre a combattere in Siria con Assad continua ad avere un’enorme influenza nel sud del Libano. Hezbollah è una storia nella storia ed è anche il motivo per cui la crescente influenza dell’Iran crea grandi preoccupazione in Israele. Per moltissimi anni Hezbollah, alleato degli iraniani, è stato conosciuto come un gruppo il cui principale obiettivo era la distruzione di Israele. Con l’inizio della guerra siriana si è trasformato in qualcosa di diverso, in un certo senso di più potente, e nel frattempo si è impegnato a garantire la sopravvivenza del regime di Assad e mantenere quindi vivo l’asse sciita Iran-Assad-Hezbollah in Libano. Israele, che continua a vedere Hezbollah come una minaccia alla propria sicurezza nazionale, sta cercando di prendere delle contromisure: oltre a compiere occasionalmente attacchi aerei in Siria contri i convogli di armi iraniane dirette a Hezbollah, sembra che stia finanziando i gruppi ribelli anti-Assad – e quindi anti-Iran – per impegnarsi a tenere lontani Hezbollah e altre milizie filo-iraniane dal suo confine, cioè vicino alle alture del Golan (tutta la questione, che è un’altra storia nella storia, è spiegata qui). Insomma: il piano dell’Iran non riguarda solo l’Iraq, è molto più ampio e potrebbe provocare le reazioni di diversi stati della regione.
Non si può dire ora cosa ne sarà dell’Iraq e quanto l’Iran riuscirà a imporre la sua volontà sul governo iracheno. Ci sono però molte preoccupazioni, soprattutto perché sembra che gli iraniani stiano cercando di riorganizzare le milizie sciite all’interno del sistema politico iracheno, come avevano fatto anni fa con Hezbollah in Libano. Tim Arango, il giornalista del New York Times, ha raccontato che ad aprile il leader di una milizia sciita, Qais al Khazali, ha fatto un discorso di fronte ad alcuni studenti di una scuola irachena, criticando gli Stati Uniti, la Turchia e l’Arabia Saudita (gli ultimi due sono paesi a maggioranza sunnita); poi un poeta che faceva parte dell’entourage di Khazali ha cominciato a ringraziare il generale Suleimani, provocando la rabbia di alcuni studenti. Nei giorni successivi i media legati alla milizia di Khazali hanno pubblicato nomi e foto dei contestatori, chiamandoli “nemici degli sciiti” e alcuni di loro sono stati sospesi da scuola per un anno.
Nonostante episodi così non siano isolati, l’Iran potrebbe incontrare alcuni ostacoli nell’estendere la sua influenza in Iraq, per due ragioni. La prima è che in Iraq ci sono molti più sunniti che in Iran: i sunniti iracheni sono stati al governo per decenni e molti di loro oggi provano diffidenza e astio verso il potere sciita e l’ingerenza dell’Iran. Il secondo è che molti religiosi sciiti nella città di Najaf (il centro spirituale sciita in Iraq), tra cui il noto ayatollah Ali al Sistani, si oppongono al sistema di governo esistente in Iran, la teocrazia islamica, e potrebbero cercare di limitare la presenza iraniana anche nelle zone dell’Iraq a maggioranza sciita.