Come si arriva alle barricate contro i migranti
Situazioni come quelle di Sinagra e Castell’Umberto derivano da un problema strutturale del sistema di accoglienza italiano
Negli ultimi giorni i quotidiani italiani si sono occupati molto del caso di due paesi in provincia di Messina – Sinagra e Castell’Umberto – i cui i residenti hanno protestato molto per l’apertura di un centro di accoglienza sul loro territorio. Le proteste sono iniziate sabato mattina, e sono diventate particolarmente tese quando un gruppo di abitanti ha impedito che nel centro fosse trasportato un gruppo elettrogeno (la struttura non era allacciata alla linea elettrica). Da ieri sera la situazione sembra essere meno tesa, ma i sindaci della zona hanno comunque deciso di mantenere un “presidio permanente” davanti al centro per protestare contro la sua apertura. Le proteste nel messinese sono solo le ultime di questo tipo in ordine di tempo: qualche mese fa sui giornali trovò molto spazio il caso di Gorino, il paese in provincia di Ferrara dove gli abitanti respinsero un pullman di migranti con delle barricate, e in generale sono molti i sindaci che si lamentano di avere scarsa autonomia sulla gestione dell’accoglienza. Dove sta il problema?
Le basi: non c’è più posto
Secondo i dati contenuti nell’ultimo Rapporto sulla protezione internazionale in Italia (PDF), a ottobre 2016 erano presenti nelle varie strutture del territorio italiano circa 171mila persone. Da allora sono sbarcate in Italia più o meno altre 110mila persone, e si calcola che altre 100mila potrebbero arrivare da qui alla fine del 2017. In pochi riescono ad andare via, a causa dei controlli più severi al confine con la Francia e l’Austria.
Sono cifre enormi: a giugno del 2015 i migranti presenti sul territorio italiano erano circa 80mila, e in molti temevano che il sistema non avrebbe retto oltre le 100mila presenze. Secondo una stima a spanne, nel giro di due anni siamo arrivati a più del triplo del numero considerato sostenibile dalle autorità italiane. Un altro dato rilevante è la quantità di persone sistemate in strutture cosiddette “temporanee”, cioè i cosiddetti CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria): nel giugno del 2015 erano circa 50mila, ma da allora la cifra è aumentata ancora. A ottobre 2016, sempre secondo il Rapporto sulla protezione internazionale in Italia, sono diventate 133mila, distribuite un po’ in tutta Italia.
La distribuzione dei migranti nei CAS al 30 giugno 2017 secondo i dati del ministero degli Interni. Ciascun numero si riferisce al totale dei migranti presenti nei CAS. È un grafico incompleto, perché non tiene conto del rapporto fra gli abitanti di una regione e il numero di migranti ospitati
La fase successiva allo sbarco
Una volta che un gruppo di migranti arriva in Italia – e dopo che è stato fotosegnalato e ha ricevuto le prime cure nei cosiddetti centri “hotspot”, una novità del 2015 – le autorità italiane devono trovare un posto dove stare per quelli che decidono di richiedere una forma di protezione internazionale; cioè praticamente tutti, visto che altrimenti le procedure prevedono la detenzione in un CIE e teoricamente l’espulsione.
Il ministero degli Interni decide quindi dove sistemarli sulla base di un sistema di “quote” su base regionale che tiene conto della popolazione, del PIL e del numero di migranti già ospitati da ciascuna regione. Le regioni che ottengono più migranti, insomma, sono le più grandi, ricche abitate: secondo dati aggiornati a marzo 2017, la regione con più migranti nel proprio territorio era la Lombardia con 26.499 persone, seguita dal Lazio con 16.655 e dalla Sicilia con 16.163. La scorsa estate il governo e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) si erano accordati per una quota indicativa di 2,5 richiedenti asilo da ospitare ogni 1000 abitanti. Negli ultimi mesi queste stime sono state superate: a marzo il prefetto Gerarda Pantalone, capo del dipartimento Libertà civili del ministero dell’Interno, durante un’audizione alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza ha spiegato che la quota è stata ridotta a 2 abitanti su mille per le grandi città che ospitano già molti migranti, e aumentata a 3-3,5 per i Comuni con più di duemila abitanti.
In base a questi criteri il ministero decide in quale regione e provincia sistemare i nuovi arrivati, e avvisa le prefetture interessate di attivarsi per trovare i posti necessari. I tradizionali centri di accoglienza – quelli che si chiamavano variamente CPA o CARA, e che da qualche tempo si chiamano hub – esistono solamente in poche regioni e sono sempre pieni. Di conseguenza a fronte del flusso costante di arrivi le prefetture si sono abituate ad usare l’unico strumento a propria disposizione per occuparsi del problema in tempi relativamente brevi: i bandi per l’apertura dei CAS, come quello appena aperto fra Sinagra e Castell’Umberto.
Questi centri, che arrivano a ospitare anche centinaia di persone, rimangono formalmente sotto il controllo della prefettura, ma l’attività giornaliera viene gestita dall’associazione o cooperativa che vince il bando. Gli obblighi di chi gestisce le strutture – che spesso sono alberghi i cui proprietari affittano per arrotondare – non sono molti: in pratica devono garantire agli ospiti tre pasti quotidiani e un posto per dormire. Specialmente in questi mesi, le prefetture “raschiano il fondo”, come si dice: dato che quasi tutte le strutture disponibili sono già state occupate, a volte è necessario utilizzare posti fatiscenti e in luoghi un po’ sperduti, per far fronte a un’emergenza che va risolta nel giro di qualche ore.
Il cuore del problema
Dato che i flussi sono in aumento da circa un anno e mezzo, la situazione continua ad essere un’emergenza, con tanto di stime e quote che vanno continuamente riviste e storture varie. Diversi sindaci per esempio si lamentano di venire “scavalcati” dalle prefetture, che a volte sono costrette ad aprire un nuovo CAS nel giro di pochissimi giorni per far fronte a nuovi arrivi di migranti nel proprio territorio, oppure a riempire completamente quelli già esistenti. È un problema di cui ha parlato anche il sindaco di Castell’Umberto, uno dei due comuni protagonisti delle proteste di questi giorni, che il 14 luglio su Facebook ha spiegato che la prefettura lo aveva appena avvisato che “in nottata” – quindi nel giro di poche ore – sul suo territorio sarebbero arrivati 30 migranti.
Prima di aprire un nuovo CAS, le prefetture cercano di riempire quelli già attivi: cosa che però porta al sovraffollamento di quelli già esistenti, come ha segnalato oggi il presidente dell’ANCI Antonio Decaro in un’intervista a Repubblica, e a casi in cui un paese di qualche migliaio di abitanti si trova ad ospitare centinaia di migranti.
Esiste poi un problema strutturale. I CAS sono considerati uno strumento efficace per gestire flussi straordinari di persone – consentono in tempi relativamente rapidi di aumentare le capacità di ricezione e accoglienza di ciascuna regione – e oggi offrono circa l’80 per cento dei posti disponibili per l’accoglienza in Italia. Il guaio è che sono inadatti a gestire un flusso costante di persone, e a lungo termine nessuno ci guadagna davvero: i comuni si ritrovano a fare i conti con una struttura che è stata aperta senza il loro appoggio, e che magari ha scombussolato la vita di un piccolo paese di periferia; i migranti rimangono parcheggiati per mesi o anni – in attesa che venga esaminata la loro richiesta di asilo – in posti spesso fatiscenti e che non hanno fra gli obiettivi quello di fare integrazione, ma solo fornire loro un tetto e un pasto.
E quindi?
Parlando col Post un anno fa, l’allora capo del Dipartimento l’Immigrazione del ministero degli Interni Mario Morcone aveva detto: «se fosse per me, tutti i CAS dovrebbero essere sostituiti dagli SPRAR». Al contrario dei CAS, le strutture dello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) sono infatti considerate il lato virtuoso del sistema di accoglienza: sono centri con numeri molto inferiori a quelli dei CAS – gli ospiti sono spesso qualche decina – che hanno come obiettivo esplicito l’integrazione dei suoi ospiti e sono tenuti a rispettare parametri molto stringenti sul personale e le attività educative.
C’è una ragione, però, per cui ad oggi gli SPRAR ospitano solo 30mila persone, secondo i dati pubblicati su Vita poche settimane fa. Sono strutture che vanno aperte in collaborazione con i comuni, e dato che gli ospiti sono soggetti a progetti di integrazione che durano diversi anni, rimangono aperte più a lungo rispetto ai CAS. Non tutte le amministrazioni hanno voluto pagare il prezzo politico della presenza di questi centri. Nè a Sinagra né a Castell’Umberto, ad esempio, era aperto uno SPRAR. In Veneto, dove la Lega Nord e il centrodestra sono molto forti, la rete SPRAR dispone solamente di 654 posti. Persino il Molise, che ha circa un quindicesimo degli abitanti del Veneto, nel 2016 ha ospitato più persone nelle sue strutture SPRAR: il 2,2 per cento del totale nazionale, contro il 2,1 del Veneto.
dati del rapporto annuale SPRAR per il 2016 (PDF)
Già da diverso tempo il governo sta provando a incentivare l’ingresso dei comuni nel programma SPRAR. In questa direzione vanno due recenti provvedimenti approvati nel 2016: il decreto legge di parziale riforma del sistema SPRAR, emesso in agosto, e l’accordo fra ANCI e governo raggiunto a dicembre. Il decreto legge, in sostanza, cerca di incentivare l’ingresso nel programma SPRAR semplificando i procedimenti burocratici per ottenere in fondi e rinnovare i programmi già esistenti. L’accordo fra ANCI e governo invece, prevede quella che è stata chiamata una “clausola di salvaguardia”: ai comuni che aderiranno volontariamente alla rete SPRAR verrà garantito il rispetto di una quota di 2,5 richiedenti asilo ogni 1000 abitanti, e allo stesso tempo il governo si impegna a non aprire in quel territorio dei CAS. All’inizio del 2017 inoltre il governo ha “bonus gratitudine”, un finanziamento una tantum dato dallo stato ai Comuni che hanno accolto richiedenti asilo, calcolato in 500 euro per ogni ospite.
Parlando con Vita a fine giugno, il delegato Immigrazione dell’ANCI Matteo Biffoni ha stimato che ad oggi circa 1.200 Comuni abbiano aderito al programma SPRAR sui circa 8mila totali in Italia. Anche i posti totali disponibili sono aumentati, passando dai 10mila del 2013 ai circa 30mila di oggi (sempre secondo una stima di Vita). Per aumentare il numero dei posti disponibili, servirà maggiore volontà politica da parte dei Comuni che ancora non hanno aderito al programma.