Perché le razze non esistono scientificamente
Ma spesso facciamo degli errori quando ne spieghiamo le ragioni scientifiche
Il concetto di “razza” non ha un fondamento scientifico. Questa frase dovrebbe comparire probabilmente in ogni articolo sulle differenze tra le diverse etnie umane e in particolare tra le diverse classificazioni antropologiche tra gli individui della specie Homo sapiens. Le classificazioni antropologiche sono quelle che fanno distinzioni tra le persone i cui antenati provengono dall’Africa subsahariana, quelle che da generazioni e generazioni vivono nell’Asia orientale, gli aborigeni australiani e i cosiddetti caucasoidi. Per capirci, sono quelle che usano poliziotti e medici legali nelle serie tv americane quando devono identificare possibili colpevoli e descrivere i cadaveri all’obitorio.
È con la frase del titolo che inizia un articolo pubblicato su uno degli ultimi numeri della rivista di divulgazione scientifica Nautilus. L’articolo si intitola What Both the Left and Right Get Wrong About Race, “In cosa sbagliano sia la sinistra che la destra quando parlano di etnie”, e spiega perché anche chi non è razzista – e si impegna per spiegare ad altre persone che i pregiudizi razzisti sono una cosa sbagliata – spesso dice cose scorrette quando vuole spiegare che le razze non esistono scientificamente.
Purtroppo può capitare di dover spiegare perché le razze non esistono scientificamente, e per questo abbiamo riassunto nel modo più semplice possibile le spiegazioni di Nautilus. Prima però è utile fare un breve ripasso del significato di alcune parole usate in biologia: se siete ferrati sulla genetica potete passare avanti.
Alcuni rudimenti di genetica
All’interno dei nuclei delle cellule delle persone, degli altri animali e degli altri esseri viventi c’è una sostanza chiamata DNA (il nome completo sarebbe “acido desossiribonucleico”, è una macromolecola) responsabile della trasmissione dei caratteri ereditari da una generazione di individui all’altra. Il DNA è organizzato in strutture chiamate cromosomi, il cui numero varia nelle diverse specie animali: negli esseri umani sono 46. All’interno di un singolo cromosoma umano si trovano migliaia di geni: sono i geni a determinare le caratteristiche di un singolo individuo (ad esempio il colore) e prima ancora la sua appartenenza a una specie. La cosa fondamentale che distingue una specie dall’altra è che tutti gli individui che vi appartengono sono mutualmente fertili, cioè accoppiandosi possono generare altri individui della stessa specie a loro volta fertili.
Un’altra parola da conoscere è “allele”: i cromosomi si dividono in coppie e i geni che si trovano nella stessa posizione sui due cromosomi di una coppia – possono essere uguali o diversi – si chiamano alleli. Gli alleli “lavorano insieme” e possono essere dominanti, recessivi o nessuno dei due: se sono diversi e uno dei due è dominante e l’altro è recessivo, a determinare la caratteristica che si vedrà nell’individuo sarà quello dominante. Se gli alleli sono diversi e non sono dominanti né recessivi, può darsi che la caratteristica che si manifesterà nell’individuo sarà una versione intermedia tra quelle codificate nei due alleli. La caratteristica che “si vede” è chiamata fenotipo, mentre quella che non si vede, cioè che comprende anche gli alleli che non vengono espressi ma si trasmettono comunque alla prole, è chiamata “genotipo”. Attenzione: molte caratteristiche umane, come il colore della pelle, l’altezza e il colore degli occhi, non dipendono da un’unica coppia di alleli, ma da diversi geni. In questo caso si parla di eredità poligenica.
Il concetto di “razza” non esiste scientificamente – nemmeno per i cani e i gatti, per i quali il termine viene usato per consuetudine – perché dal punto di vista biologico non c’è nessuna distinzione netta tra i diversi gruppi di individui di una stessa specie. Anche se si stabilisse che certi caratteri – come quelli presi in considerazione da chi crede che le razze esistano – corrispondono a una certa categoria e non a un’altra, non sarebbe possibile dividere tutte le persone del mondo in categorie, perché quasi tutte le persone apparterrebbero a più di una.
È vero che tutte le persone hanno lo stesso genoma per il 99,9 per cento, ma non è questo il punto
Le persone che vogliono convincerne altre a non pensare e dire cose razziste usando argomentazioni scientifiche spesso sottolineano come il genoma di tutte le persone (la parte del DNA uguale per tutti gli individui di una stessa specie), qualunque sia il colore della loro pelle o la forma dei loro occhi, sia identico al 99,9 per cento. Questa cosa è vera, ma non è questa la ragione per cui le razze non esistono. Basta considerare che il genoma degli esseri umani è uguale per più del 98 per cento a quello degli scimpanzé e per il 99,7 per cento uguale a quello dell’uomo di Neanderthal, che faceva parte del nostro stesso genere, il genere Homo, ma era un’altra specie: da questi esempi si capisce che anche solo lo 0,3 per cento può essere una grossa differenza nel codice genetico.
Un’altra cosa che si dice è che ci sono più differenze nel DNA di persone che fanno parte dello stesso gruppo etnico, rispetto al numero di differenze tra diversi gruppi etnici. Anche questo è vero ed è così per il modo in cui le popolazioni umane si sono spostate tra i continenti nella storia: le persone di origine europea e asiatica derivano da un unico gruppo di persone che migrarono dall’Africa, per questo tra loro ci sono meno differenze genetiche di quelle che ci sono tra varie etnie africane, come tra gli Hazda della Tanzania e i Fulani dell’Africa occidentale.
Il fatto è che non è il numero di differenze tra diversi codici genetici, considerate gene per gene, a fare la differenza sulle cose importanti. Questo perché le cose importanti possono essere determinate anche da una differenza dello 0,0001 per cento. Nautilus fa l’esempio del gene FOXP2, chiamato anche “gene del linguaggio”: le persone che hanno una certa mutazione in questo gene soffrono di disprassia verbale, cioè non riescono a comunicare parlando. Questa è una grossa differenza con le persone che invece sanno parlare, che però possono essere identiche a loro fino al 99,9999 per cento. In pratica non è tanto importante quanti siano i geni diversi, ma quali siano. Che quando si parla di geni la quantità è relativamente poco importante lo si sa anche per un’altra ragione, e cioè che gli esseri umani hanno meno geni – ne abbiamo sull’ordine dei 20mila – di organismi meno complessi, come le piante. Ciò che conta è il modo in cui questi geni funzionano.
I lunghi tempi dell’evoluzione non sono la ragione per cui le razze non esistono
Un’altra argomentazione che viene usata dalle persone che ci tengono a spiegare che il concetto di “razza” non è fondato scientificamente è quella per cui dal punto di vista dell’evoluzione non è passato abbastanza tempo perché si creassero vere differenze tra i vari gruppi di esseri umani. È vero che i 40mila o 50mila anni passati da quando l’Homo sapiens è diventato quello che è oggi dal punto di vista biologico non sono nulla rispetto alla ben più lunga storia degli ominini, ma questo non c’entra nulla con la questione delle presunte razze e con le differenze tra le varie popolazioni umane.
Un esempio per spiegare perché il tempo ha un’importanza relativa: il quoziente intellettivo di una persona non dipende da un unico gene, ma dal modo in cui diversi geni si combinano, cioè per eredità poligenica. Se le persone con un quoziente intellettivo più alto si riproducessero più velocemente di quelle con un quoziente intellettivo più basso, in alcune generazioni si avrebbe un aumento del quoziente intellettivo medio perché dal punto di vista statistico è più facile che si arrivi prima a un risultato che dipende da molti geni, piuttosto che un singolo gene mutato compaia e si diffonda.
Il tempo non è il punto. Non sappiamo come ci stiamo evolvendo e non ci sono dati che indichino che si stiano creando delle differenze – soprattutto per quanto riguarda le capacità intellettive – tra diverse popolazioni.
I geni molto diversi tra le varie popolazioni (come il cosiddetto “gene del guerriero”) non hanno grossi effetti
Nautilus smonta anche le credenze sulla genetica di chi pensa che nel DNA le differenze “razziali” esistano. La prima è quella sostenuta dal giornalista Nicholas Wade, autore del saggio controverso A Troublesome Inheritance: Wade dice che il fatto che certi alleli siano più presenti in certe popolazioni che in altre possa spiegare le differenze di comportamento tra vari gruppi etnici. Wade usa l’esempio del gene MAOA, soprannominato “gene del guerriero” perché a un certo punto sembrava che una sua mutazione rendesse le persone che ce l’hanno più aggressive in alcune situazioni: l’allele mutato è più presente nelle persone nere e per questo Wade associava l’aggressività ai neri. Tuttavia i risultati del primo test sulla mutazione di MAOA, che comunque è presente anche in persone non nere, non sono stati confermati da altri studi.
Il ruolo della deriva genetica
Un’altra cosa in cui chi pensa che le razze esistano sbaglia è dare troppo peso alla selezione naturale e troppo poco alla deriva genetica, cioè quel meccanismo dell’evoluzione che è dovuto a fattori casuali, e in particolare al peso della deriva genetica nelle caratteristiche che dipendono da eredità poligeniche. L’evoluzione non dipende solo dalla selezione naturale, che favorisce la trasmissione delle caratteristiche più vantaggiose per la sopravvivenza degli individui nelle condizioni in cui si trovano, ma anche da una certa dose di caso nella trasmissione di un determinato allele piuttosto che di un altro.
Se l’evoluzione si basasse unicamente sulla selezione naturale, potrebbero esserci differenze genetiche molto più marcate tra diverse popolazioni. Alcune esistono e sono molto note: ad esempio, nelle popolazioni dell’Africa occidentale e centrale è molto diffuso un genotipo che protegge dalla malaria, una malattia molto frequente in queste zone geografiche. Un’altra è il colore della pelle, cioè la presenza di melanina, che storicamente variava a seconda dell’esposizione solare nelle zone d’origine. Il fatto è che la selezione naturale non è l’unico meccanismo che regola l’evoluzione e non tutti i tratti – soprattutto quelli complessi, come le caratteristiche mentali e comportamentali – sono influenzati così chiaramente dall’ambiente.
La deriva genetica ad esempio ha un ruolo importante nell’influenzare sia il quoziente intellettivo sia l’altezza, un’altra caratteristica che dipende da diversi geni. Sono due caratteristiche che dipendono anche dall’ambiente, ma per il singolo individuo (si pensa che l’altezza di una persona dipenda per il 20 per cento dalle condizioni in cui è cresciuta), non per un meccanismo di selezione naturale tra i membri della popolazione in cui è nato. Poi ovviamente possono diffondersi in una specifica popolazione, ma succede per caso e non per qualche caratteristica ambientale o per qualche legame con altre caratteristiche, come il colore della pelle. Pensate ad esempio alla differenza di altezza media tra i pigmei e i Tutsi del Ruanda, o a quella tra gli Inuit e gli svedesi, che abitano più o meno alle stesse latitudini.
Non si può dimostrare scientificamente se ci sia un gruppo di persone più intelligente di altre
La parte finale dell’articolo di Nautilus riguarda la questione dell’intelligenza, o meglio, del quoziente intellettivo. Nel 1994 uscì il saggio The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life, scritto dallo psicologo Richard Herrnstein e dal giornalista e politologo Charles Murray, in cui si diceva che le persone nere sarebbero geneticamente inferiori a quelle bianche in relazione all’abilità cognitiva. È il più classico dei pregiudizi razzisti, che c’era già nell’Ottocento. Le prove portate da Herrnstein e Murray però sono state smontate.
All’epoca non era possibile fare un’analisi di genetica molecolare, cioè che studiasse la struttura e la funzione dei geni al livello molecolare. Nautilus spiega che anche oggi che potremmo farla risulterebbe impossibile dimostrare una relazione tra quoziente intellettivo e presunte razze.
Partiamo dall’inizio: ci sono due modi per provare a vedere se in media le differenze nei codici genetici di persone bianche e nere, ad esempio, corrispondono a un determinato fenotipo, come i risultati scolastici. Il primo è usare i punteggi poligenici, numeri che vengono calcolati tenendo conto di tutti i geni che contribuiscono a formare una data caratteristica, considerando che alcuni sono più importanti di altri e assegnando loro un peso diverso di conseguenza. Tra le altre cose è stato usato per fare una valutazione sulle diverse capacità di lettura dei bambini dovute al loro DNA. Il secondo modo è l’analisi delle componenti principali: consisterebbe nel calcolare per le diverse persone la percentuale di geni di “origine europea” e quella di “origine africana” e poi vedere se le persone con una maggiore quantità dell’una o dell’altra hanno in media un quoziente intellettivo più alto. Sia il calcolo dei punteggi poligenici che l’analisi delle componenti principali hanno degli svantaggi.
Finora il risultato migliore che è stato ottenuto grazie ai punteggi poligenici riguarda l’altezza: analizzando il DNA di una persona e calcolando il suo punteggio poligenico per questo tratto si può stimare nel cinquanta per cento dei casi quanto questa persona sia alta con una buona approssimazione. Il problema a usare i punteggi poligenici per fare dei confronti tra popolazioni diverse è che però non funzionano nello stesso modo. Usando il metodo per il calcolo del punteggio poligenico per i bianchi sui codici genetici dei neri non si ottiene un risultato altrettanto buono: in media si sottostima l’altezza della persona presa in considerazione di quindici centimetri. Questo perché le combinazioni di geni che determinano il fenotipo dell’altezza variano di popolazione in popolazione, in particolare per le persone di origine africana in cui c’è maggiore variabilità genetica.
Il metodo alternativo ai punteggi poligenici, l’analisi delle componenti principali, non può funzionare per un’altra ragione: non c’è modo di escludere gli effetti dell’ambiente in cui una persona è vissuta e vive su caratteristiche come le abilità cognitive. L’unico modo in cui possono essere escluse è analizzando le differenze tra fratelli vissuti nella stessa famiglia: in questo modo si possono determinare le differenze dovute solo alla genetica. Il fatto è che non ci sono differenze rilevanti nel DNA di fratelli di una stessa famiglia quando si tratta di componenti principali.
La vera ragione per cui le razze non esistono
Un po’ lo abbiamo già detto, ma ci torniamo per chiarezza. I primi tentativi di classificare gli esseri umani tra diverse razze – all’epoca considerate una categoria scientifica – risalgono al Settecento; tra le persone che si interessarono all’argomento ci furono Linneo, il naturalista svedese che inventò la moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, e il filosofo Immanuel Kant. Già all’epoca la principale caratteristica che veniva chiamata in causa per distinguere le diverse razze era il colore della pelle. All’inizio dell’Ottocento alcuni studiosi arrivarono a ipotizzare che tra le razze non ci fosse una completa interfertilità e che quindi esistessero più specie di esseri umani: già Charles Darwin contestò questa idea, completamente infondata, come anche il concetto di razza. Ai suoi tempi c’era chi diceva che le razze erano due, altri ne distinguevano fino a 63: queste divergenze nelle possibili classificazioni erano sintomo del fatto che non ci sono caratteristiche precise che possono distinguere scientificamente diversi gruppi umani in modo inequivocabile. In L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto al sesso (1871) Darwin scrisse che le differenze tra le razze, anche se vistose, sono irrilevanti, mentre è evidente che nelle caratteristiche importanti, comprese quelle mentali, tutte le popolazioni del mondo sono simili.
Tutta la questione è stata spiegata bene da Luigi Luca Cavalli-Sforza, Paolo Menozzi e Alberto Piazza nell’importante saggio Storia e geografia dei geni umani, pubblicato nel 1994 dalla Princeton University Press:
«Il tentativo di classificare la specie umana in razze è stato in realtà uno sforzo futile (…). L’analisi evolutiva delle popolazioni umane mostra che è totalmente arbitrario fermarsi, nella classificazione, a un livello piuttosto che a un altro. Le spiegazioni sono di natura statistica, geografica e storica. Dal punto di vista statistico la variazione genetica all’interno di uno stesso gruppo è mediamente maggiore di quella tra gruppi diversi. Se consideriamo geni singoli, tutte le popolazioni o i gruppi di popolazioni si sovrappongono, dal momento che tutti i geni sono presenti in quasi tutte le popolazioni, anche se in proporzioni diverse; perciò nessun gene singolo è sufficiente per classificare le popolazioni umane in categorie scientifiche».
Lo stesso libro dice anche:
«Il concetto di razza nella specie umana non ha ottenuto alcun consenso dal punto di vista scientifico, e non è probabilmente destinato ad averne, poiché la variazione esistente nella specie umana è graduale. Si potrebbe obiettare che gli stereotipi più diffusi, tutti basati sul colore della pelle, sul colore e l’aspetto dei capelli e sui tratti facciali, riflettono differenze superficiali che non sono confermate da analisi più appropriate fatte su caratteri genetici».
In un certo senso però le razze esistono
Gli autori dell’articolo di Nautilus concludono ricordandoci quanto i pregiudizi e i costrutti sociali abbiano ancora un peso grossissimo nella vita delle persone e che questo fa sì che in un certo senso le razze esistano: succede quando una persona subisce per tutta la vita certi trattamenti solo per via del suo aspetto fisico. Ad esempio, è vero che negli Stati Uniti il tasso di abbandono scolastico è più alto tra le persone nere, ma è anche vero che in media le persone nere provengono da contesti economici più svantaggiati e che spesso devono sopportare altre forme di svantaggi. Anche tra gli stessi afroamericani, quelli che hanno la pelle più chiara tendono a essere ritenuti più intelligenti o attraenti e per questo favoriti, sia all’interno delle proprie famiglie che negli ambienti sociali più grandi, a partire dalla scuola. Allo stesso modo i ragazzini afroamericani con la pelle più scura rischiano maggiormente di essere considerati meno intelligenti dai propri insegnanti o di essere guardati con sospetto dalla polizia. Questo fenomeno sociale non è stato riscontrato solo negli Stati Uniti, ma anche in Brasile, Sudafrica e altri paesi in cui le minoranze etniche sono maggiori rispetto ad altri.
Il problema con le razze è che, pur non esistendo dal punto di vista scientifico, esistono dal punto di vista sociale, perché i pregiudizi razziali sono molto diffusi, anche tra chi è contrario a qualsiasi discorso razzista e crede nell’uguaglianza tra le persone. I pregiudizi sono la ragione per cui il colore della pelle, in definitiva, può avere un peso nello sviluppo cognitivo di una persona.
Tutte le gif di questo articolo vengono dalla serie tv Dear White People, che è un ottimo punto di partenza per capire delle cose (non scontate) sul razzismo: non per quanto riguarda le considerazioni errate sulla genetica, ma su tutto il resto.