I cocktail sono una cosa da donne
Il modo in cui li conosciamo oggi ha a che fare con proibizionismo, femminismo e buone maniere
Soprattutto d’estate è un piacere e un sollievo passare l’ora che precede la cena con un aperitivo, ancora meglio se in un cosiddetto cocktail party, dove si bevono in compagnia vini e cocktail leggeri mangiucchiando qualche tartina più o meno raffinata.Quando si parla di alcol si pensa subito, in modo pregiudiziale, che venga consumato soprattutto dagli uomini: nonostante ciò, questi rinfreschi informali sono un rito nato negli Stati Uniti e legato alla storia dell’emancipazione femminile, come ha raccontato di recente Atlas Obscura.
Flapper al bar del nigh club di Isa Lanchester a Londra, nel 1925 (General Photographic Agency/Getty Images)
Per prima cosa, un cocktail è una miscela di due o più ingredienti di cui almeno uno alcolico, anche se ovviamente possono essercene molti di più. Da dove venga la parola non è chiaro, come spesso in questi casi: secondo alcuni sarebbe la fusione di cock ale, un tipo di birra inglese che veniva imbottigliata insieme a un gallo bollito e spellato, con spezie e altri aromi. Secondo altri deriva invece dall’espressione cocktailed horses, poi solo cocktails, cioè i cavalli “dalle code mozzate” come si usava fare con i non purosangue: allo stesso modo i cocktail erano bevande alcoliche diluite con acqua e quindi non pure. Il primo a scrivere di cocktail senza parlare di cavalli fu il giornale Morning Post and Gazetteer di Londra, il 20 marzo del 1798, mentre secondo l’Oxford English Dictionary la parola è di origine americana: qui appare per la prima volta sul Farmer’s Cabinet del 28 aprile 1803, e probabilmente indicava una bevanda miscelata e analcolica.
Cocktail e bevande leggere erano in circolazione già da secoli, per esempio nel Regno Unito i punch vennero introdotti nel Seicento dall’India e indicavano una bevanda solitamente poco alcolica (il nome significa “cinque” in sanscrito a indicare i cinque ingredienti: alcol, zucchero, limone, acqua, tè o spezie). In Italia l’aperitivo – che come indica l’etimologia latina significa una bevanda “che apre” e quindi stimola l’appetito per la cena – si diffuse grazie all’invenzione del vermut, un bianco mescolato a spezie ed erbe inventato a Torino da Antonio Benedetto Carpano nel 1786. La diffusione dei cocktail fu sancita dalla Bartender’s Guide di Jerry Thomas pubblicata nel 1862: è la guida ai cocktail per eccellenza in cui però non è ancora configurato il rito sociale in cui li consumiamo abitualmente. La prima volta in cui si parla di un cocktail party è una cronaca mondana dell’aprile 1917 sul Tacoma Times, un quotidiano locale di St. Louis, in Missouri, che raccontava come fosse stato organizzato «per la prima volta» da Clara Bell Walsh, una giovane donna dell’alta società cittadina.
Un barman al ristorante di lusso Monseigneur di Londra, nel 1932 (Sasha/Getty Images)
La nascita dei cocktail e la diffusione degli aperitivi è all’incrocio di due diverse tendenze: il movimento che disapprovava il consumo di alcol e che ridusse i luoghi pubblici in cui era servito, come saloon e bar degli hotel, spingendo la gente a consumarlo in casa fino a sfociare nel proibizionismo; dall’altro la nascita del femminismo e dei movimenti di emancipazione della donna. Tra il 1880 e i primi anni Venti, la società e in particolare le donne iniziarono a scrollarsi di dosso il moralismo e le rigide regole Vittoriane. Grazie a nuovi strumenti come il ferro da stiro elettrico e i forni a gas, si ridussero le ore di lavoro dei domestici e i banchetti dalle tante portate e dai piatti elaborati passarono di moda a favore di ricevimenti più alla mano, con bevande e stuzzicchini leggeri. Come scriveva una guida di buone maniere nel 1906 “l’intrattenimento informale è, come tutti sanno o dovrebbero sapere, un complimento maggiore per gli ospiti che qualsiasi intrattenimento formale, per quanto splendido». Il nuovo modo di stare in società era casual e leggero, con uomini e donne che socializzavano insieme spizzicando insalate e tartine con un bicchiere in mano: «Acqua gassata, punch, vino e limonata sono più che sufficienti. Il tempo del rinfresco va dalle sei alle sette, un pasto pesante sarebbe fuori luogo», spiega la Etiquette for All Occasions nel 1901. Di fatto gli aperitivi presero il posto dei tè del pomeriggio ottocenteschi.
Un tea party vittoriano, piuttosto noioso, nel 1895 (Hulton Archive/Getty Images)
Anche se le cosiddette New Women si divertivano a sorseggiare i nuovi cocktail, erano comunque malviste dalla società e le aziende per prime provare a cambiare questa percezione con marketing e pubblicità, senza grande successo. Nel 1897 per esempio l’azienda statunitense di cibo e bevande Heublein’s si rivolse direttamente alle donne nel presentare i suoi alcolici: «Nel passato gli uomini erano gli unici privilegiati a poter prendere parte alla più raffinata bevanda americana, il cocktail. Con l’introduzione dei Club Cocktail è ora possibile per il gentil sesso soddisfare la curiosità verso il miscuglio di cui si è tanto detto e che finora non aveva potuto assaggiare».
Un tea party in una spiaggia inglese, nel 1929 (Topical Press Agency/Getty Images)
La svolta arrivò soltanto con il cocktail party di Clara Bell Walsh che, signora della buona società qual era, trasformò questi appuntamenti informali e allegri in qualcosa di chic, di buongusto e alla moda. Walsh era nata nel 1884 e a vent’anni si ritrovò milionaria dopo la morte del padre, che le lasciò una ricca eredità e molta indipendenza. Come racconta il Tacoma Times «i cocktail parties sono diventati subito la nuova moda della buona società» e «grazie alla sua idea la signora Walsh è diventata una celebrità nella società di St. Louis». Soltanto tre anni dopo, nel 1920, negli Stati Uniti entrò in vigore il proibizionismo, che vietata appunto il consumo di alcol: come si sa continuò, con alti rischi per chi lo beveva e alimentando il potere delle organizzazioni criminali che lo contrabbandavano, e continuò anche tra le donne, le cosiddette flapper, cioè quelle più libere ed emancipato. Scriveva Vogue nel 1930:
«Le donne davvero sveglie sono contrarie al proibizionismo. Tutte hanno in comune una certa libertà di pensiero, è questo il tipo di donna che si è data da fare per il diritto di voto. Durante la guerra guidavano ambulanze il più vicino possibile al fronte. Sono atletiche. Sono state le prime a bere cocktail. Hanno in sé le qualità mentali e i modi di fare che le rende leader».
In Regno Unito il primo cocktail party fu organizzato dal pittore Christopher Nevinson nel 1927 anche se la diffusione di questo rito si deve soprattutto ad Alec Waugh (fratello dello scrittore Evelyn), che nel 1970 scrisse anche un articolo su Esquire in cui rivendicava di averlo inventato. Molto più probabilmente, come dice anche il figlio Peter, si limitò a renderlo alla moda, servendo agli ospiti che si presentavano a casa sua alle 17:30 per un tè del pomeriggio, bevande alcoliche e inusuali fino a ora di cena.
Due ragazze bevono un cocktail al Waldorf-Astoria di New York dopo la fine del proibizionismo, nel 1933 (AP Photo)