• Moda
  • Sabato 15 luglio 2017

L’omicidio di Gianni Versace

Il 15 luglio 1997 lo stilista che cambiò la moda – rendendola il fenomeno di massa che è oggi – fu ucciso da un serial killer a Miami Beach

Gianni Versace con Naomi Campbell dopo la sfilata della sua collezione primavera-estate 1997, Milano, 5 ottobre 1996
(GIUSEPPE FARINACCI/ANSA)
Gianni Versace con Naomi Campbell dopo la sfilata della sua collezione primavera-estate 1997, Milano, 5 ottobre 1996 (GIUSEPPE FARINACCI/ANSA)

La mattina del 15 luglio 1997 lo stilista Gianni Versace fu ucciso davanti alla sua casa di Miami Beach, in Florida, mentre rientrava da una passeggiata. A sparare fu Andrew Cunanan, un serial killer che nei tre mesi precedenti aveva ammazzato altre quattro persone, e che era conosciuto per stringere legami con ricchi uomini anziani, sfruttandoli per spendere i loro soldi. A quanto si sa, però, Cunanan e Versace non si conoscevano, e non si seppe mai se dietro alla morte dello stilista ci fu qualcosa di più di una sfortunata coincidenza: anche perché Cunnan si suicidò una settimana dopo. L’omicidio di Versace ebbe un grande impatto negli Stati Uniti e soprattutto in Italia. La sua fama era uscita dai confini dell’alta moda per entrare da più parti in quelli della cultura popolare: e questo per via di un movimento analogo e parallelo dell’alta moda in generale, avvenuto in buona parte per quello che aveva fatto Versace stesso.

Versace nacque a Reggio Calabria nel 1946, e fin da piccolo visse dentro alle cose di moda per via di sua madre, che aveva una bottega da sarta nel centro della città. All’inizio degli anni Settanta si trasferì a Milano, dove iniziò a lavorare per alcune aziende di moda e nel giro di qualche anno arrivò a presentare la prima collezione con il suo nome sopra. In quel periodo la moda era ancora una cosa che riguardava gente molto ricca, e aveva poco o niente da spartire con le masse. Quasi non aveva collegamenti con le principali industrie culturali del mondo, dal cinema all’arte. Ma Versace, un po’ perché aveva una testa come pochi altri un po’ perché era cresciuto in Calabria, lontano dalle bolle in cui lavoravano gli stilisti milanesi o parigini, sapeva che la frontiera della moda era un’altra, e prevedeva lo sconfinamento e la sovrapposizione con la cultura popolare.

Versace si portò dietro le cose con le quali aveva convissuto fin da bambino: «Quando nasci in un posto come la Calabria, e tutto intorno c’è la bellezza, delle terme romane, dei monumenti greci, non puoi fare a meno di essere influenzato dalla classicità». Nelle sue collezioni mise simbologie etrusche, elementi della Grecia antica e il Barocco italiano, ma li mischiò con la musica punk, con la street art, con materiali come plastica e metallo, e invenzioni solo sue, appariscenti e apparentemente poco raffinate, come le cinghie di pelle. In molti accolsero le sue trovate con scetticismo, accusandole di volgarità, spesso senza capire che era questo movimento dall’alto verso il basso quello che Versace voleva. L’aspetto più evidente in cui si tradusse il suo sforzo di allargare il bacino di fruitori dell’alta moda fu il coinvolgimento di celebrità che fino ad allora non avevano avuto un ruolo diretto in quel mondo, da Madonna a Bon Jovi a Sting. Alle sue sfilate nelle prime file c’erano sempre quelli che la gente voleva vedere sulle riviste, e che da quel momento iniziò a vedere insieme ai suoi vestiti.

A Versace si deve anche l’utilizzo di supermodelle strapagate, diventato una consuetudine ma fino ad allora visto di cattivo occhio dagli stilisti più importanti. In una sfilata nel 1991 fece uscire insieme Naomi Campbell, Cindy Crawford, Linda Evangelista e Christy Turlington a braccetto mentre cantavano come quattro amiche al karaoke “Freedom” di George Michael, producendo quella che oggi diventerebbe forse la reaction gif dell’anno, trent’anni prima delle reaction gif.

Nella seconda metà degli anni Settanta, Versace aveva poi sfruttato il suo primo successo per mettere in pratica quella che è tuttora riconosciuta come una delle sue più grandi intuizioni: chiamò il fotografo Richard Avedon, già affermato per le copertine di Harper’s Bazaar Vogue, e gli fece fare le fotografie per le sue collezioni. Avedon fu il primo di una lunga serie di grandi fotografi con i quali Versace collaborò, tra i primi a farlo nel mondo della moda: tra gli altri Bruce Weber, Herb Ritts e Helmut Newton. Spesso le sue campagne pubblicitarie erano al confine della fotografia erotica, almeno nella percezione di allora, subendo censure e critiche che ebbero principalmente l’effetto di rafforzare la sua immagine spiazzante e attirarsi la curiosità di chi il mondo della moda non lo aveva mai frequentato.

Con molte delle celebrità con le quali collaborò, Versace diventò molto amico: da Woody Allen alla principessa Diana a Mike Tyson, che bazzicavano spesso nelle sue case a Manhattan o sul lago di Como. Il suo nome diventò sinonimo di divertimento, del godersi la vita, del sesso, dell’intrattenimento e della celebrità. Dal 1982 alla sua morte, Versace fu fidanzato con il modello Antonio D’Amico, che cominciò a lavorare come stilista per l’azienda che Gianni Versace aveva fondato nel 1978 insieme alla sorella Donatella e al fratello Santo, e che in breve tempo era diventata una delle più importanti del settore. Nei vent’anni in cui ne rimase a capo, Versace continuò a usare per le sue collezioni spunti che arrivavano dalle forme d’arte più svariate e differenti, nel tempo e nella provenienza geografica, e a mettere la sua curiosità eclettica nei vestiti che disegnava. Tra le sue passioni principali c’era l’arte contemporanea, di cui si interessava visitando continuamente atelier e studi. Nella sua casa aveva perfino assunto una persona per tenere ordinati i moltissimi libri che possedeva.

Gli abiti di Versace diventarono nel giro di dieci anni una cosa in grado di trasformare aspiranti celebrità in star: come successe a Liz Hurley alla prima di Quattro matrimoni e un funerale, quando indossando un vestito fornito dall’ufficio stampa del film, molto ardito e che nessun’altra invitata aveva voluto, finì sulle pagine dei giornali di costume di tutto il mondo, diventando famosa.

Quando fu ucciso, Versace aveva cinquant’anni. Solitamente era un suo assistente a fare la poca strada che separava la sua villa di Miami Beach dal bar dove prendeva i giornali, ma quella mattina ci andò di persona. Cunanan era già nella lista dei dieci criminali più ricercati degli Stati Uniti, per gli omicidi di quattro uomini avvenuti dall’aprile di quell’anno: aveva ucciso un ex ufficiale di marina con un martello e un suo ex amante architetto a colpi di pistola, un agente immobiliare con un cacciavite a Chicago e il custode di un cimitero in New Jersey, di nuovo con una pistola.

La mattina del 15 luglio del 1997 sparò due colpi in testa a Versace, uccidendolo sul colpo, e poi scappò su un furgone rubato a una sua vittima. Sulle prime si ipotizzò anche un omicidio ordinato dalla mafia, per via di un uccello morto trovato sul posto, che si scoprì poi essere morto per un frammento di proiettile. Nove giorni dopo, nella camera da letto di una casa galleggiante a Miami, Cunanan si sparò alla tempia utilizzando la stessa pistola dei suoi omicidi. Non fu mai trovato un legame tra lui e Versace, il cui corpo fu cremato e sepolto sul lago di Como. La seconda stagione di American Crime Story, la serie di Showtime che ha già raccontato il processo a O.J. Simpson, sarà proprio sull’omicidio Versace: lui sarà interpretato da Edgar Ramirez, sua sorella Donatella da Penelope Cruz, D’Amico da Ricky Martin.