Cosa vuol dire “comminare”
Se pensate che sia un sinonimo di "infliggere", vi sbagliate
di Massimo Arcangeli
Nell’uso comune comminare viene spesso adoperato, erroneamente, come sinonimo di infliggere: un giudice ha comminato 3 anni di reclusione a un imputato per furto aggravato. Chi ha emesso l’ordinanza (20 aprile 2016) da cui è stato tratto il brano seguente è un comune bergamasco, che dichiara di investire del compito di farla rispettare «il Comando di Polizia Locale, il personale del Servizio A.N.T.A. e le altre forze di Polizia all’uopo incaricate»:
Ritenuto opportuno prevedere che i proprietari dei cani o le persone incaricate della loro conduzione siano muniti di apposite palette, sacchetti di plastica o qualsiasi altro strumento idoneo alla raccolta delle deiezioni canine, onde poter rimuovere gli escrementi;
Valutato di garantire una maggiore igiene dell’area urbana ed una più sicura circolazione per i cittadini […]INCARICA
di fare rispettare la presente ordinanza, comminando la relativa sanzione, il Comando di Polizia Locale, il personale del Servizio A.N.T.A. e le altre forze di Polizia all’uopo incaricate.
A rigore, però, un esponente delle forze dell’ordine non commina una sanzione, perché è un compito spettante al legislatore, ma la infligge. Vale lo stesso per un giudice: anche lui infligge una sanzione (o una pena) comminata dalla legge. Scriveva già Giulio Nascimbeni nel lontano 1998, in un articolo uscito sul Corriere della Sera il 6 dicembre di quell’anno (Comminare, verbo usato a sproposito):
[È] accaduto e accade che si leggano o si ascoltino con deprimente frequenza frasi come “la Corte d’assise ha comminato tre ergastoli”, “le condanne a morte comminate dai tribunali militari durante la Grande Guerra”. Sono espressioni sbagliate. Come ricordava Aldo Gabrielli nel suo Si dice o non si dice?, comminare una pena significa “minacciarla collettivamente, genericamente, a tutti coloro che commettono un determinato delitto. Chi può comminare una pena, cioè minacciarla, stabilirla, sancirla, non può essere perciò che la legge, e per essa il codice. Il giudice non minaccia, ma applica la pena in base a quanto stabilisce la legge”. E se non si vuol dire che “applica la pena” si può dire, a scelta, che la infligge, la assegna o la irroga. Da “comminare” deriva il sostantivo “comminazione”. C’è un esempio molto preciso nel primo capitolo dei Promessi Sposi, là dove sono citate le gride dei governatori spagnoli dello Stato di Milano contro le scelleratezze dei bravi. Il Manzoni ricorda una grida del 5 dicembre 1600, decisa da don Pietro Enriquez de Acevedo, “piena di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite”. C’è tutto: la legge che commina e l’applicazione della legge. Quanto a “onninamente”, che vale come interamente o totalmente, credo che pochi oggi usino quell’antico avverbio.
L’origine di comminare è il latino commĭnari, composto del prefisso con– e di minari (“minacciare”). Si sente così usare talvolta comminare per significare proprio minacciare, anche se dire di una legge che “minaccia” una pena per l’imputato di un reato è un po’ esagerato. Comminare, se vogliamo essere precisi, vuol dire semplicemente fissare, stabilire, determinare, prevedere, ecc.: il Codice penale commina il carcere fino a 5 anni per reati di questo genere; il Codice civile commina una pena pecuniaria molto elevata per l’infrazione commessa.
A comminare una sanzione può essere perciò anche un comune, una provincia o un qualunque altro ente territoriale che goda di autonomia amministrativa (o, nel caso di una regione, di autonomia amministrativa e legislativa insieme), ma non chi deve applicare materialmente la sanzione per conto di quell’ente.
Alla vigilia del Festival “Parole in cammino” che si è tenuto ad aprile a Siena, il suo direttore Massimo Arcangeli – linguista e critico letterario – ha raccontato pubblicamente le difficoltà che hanno i suoi studenti dell’università di Cagliari con molte parole della lingua italiana appena un po’ più rare ed elaborate, riflettendo su come queste difficoltà si estendano oggi a molti, in un impoverimento generale della capacità di uso della lingua. Il Post ha quindi proposto ad Arcangeli di prendere quella lista di parole usata nei suoi corsi, e spiegarne in breve il significato e più estesamente la storia e le implicazioni: una al giorno.
Il nuovo libro di Massimo Arcangeli, “La solitudine del punto esclamativo“, è uscito il primo giugno per il Saggiatore.