Breve storia dell’eterosessualità
Soltanto un secolo fa era definita «un appetito anormale o perverso per il sesso opposto», oggi è considerata la norma su cui misurare il resto
di Giulia Siviero
La coppia simbolica “uomo-donna” si è imposta come modello universale, eterno, naturale e obbligatorio solo a un certo punto: prima, non era così. La principale obiezione all’affermazione che l’eterosessualità come la pensiamo oggi sia un’invenzione storica è fare riferimento alla riproduzione: “I rapporti sessuali tra persone di sesso diverso esistono da quando esistono gli esseri umani, altrimenti gli esseri umani non esisterebbero”, si dice. Ma questa obiezione è in realtà paradossale, perché presuppone che l’eterosessualità coincida con la procreazione: cosa che invece non è.
L’eterosessualità, così come la intendiamo oggi, è stata a lungo sottratta a ogni domanda o indagine critica: è stata pensata come un fatto a priori e, dunque, non è stata pensata. In un lungo articolo pubblicato su BBC il giornalista Brandon Ambrosino ha riproposto di sottrarre l’eterosessualità all’ordine della Natura, diciamo, per farla invece entrare nell’ordine del Tempo e della Storia. Ci sono molti vantaggi nel considerare l’eterosessualità non come un soggetto che occupa tutta la scena ma come oggetto dell’analisi, ma ci arriviamo.
L’eterosessualità è “un appetito anormale”
Ancora nei primi anni del Ventesimo secolo “eterosessualità” e “omosessualità” erano ancora oscuri termini medici: soprattutto nessuno dei due aveva ancora raggiunto il primo posto della gerarchia, lo status cioè di “sessualità normale”. Anzi. Nel 1901 il Dorland’s Medical Dictionary pubblicato a Phiiladelphia definiva l’eterosessualità come «un appetito anormale o perverso per il sesso opposto». Nel 1923 nel Nuovo Dizionario Internazionale della Merriam-Webster la descrizione era quasi identica: «Passione sessuale morbosa per una persona di sesso opposto». Solo nel 1934 la descrizione dell’eterosessualità divenne quella che è ancora oggi: «Manifestazione di passione sessuale per una persona di sesso opposto; sessualità normale». Come si passò da una definizione di anormalità a una di normalità?
La procreazione
Prima che il sistema della sessualità venisse costruito sulla coppia di opposti eterosessuale/omosessuale, la dualità prevalente aveva a che fare con il binomio riproduzione/non riproduzione. L’enfasi era dunque sulla finalità della riproduzione, sul fatto cioè che l’atto sessuale avesse fini procreativi (secondo natura, e dunque normale) oppure no (contro natura, e di conseguenza “deviato”, a prescindere dal genere delle persone coinvolte).
In origine, e in questo schema, l’atto eterosessuale indicava dunque un atto tra uomo e donna che in qualche modo poteva essere “patologico” e “anormale” al pari dell’adulterio e della masturbazione, perché non basato sulla procreazione. «La Bibbia condanna i rapporti omosessuali per la stessa ragione per cui condanna la masturbazione: perché il seme della vita viene disperso», scrive Ambrosino, che nell’affermare che il concetto di eterosessualità ha una storia piuttosto recente riprende ricerche pubblicate negli ultimi anni (il libro “The Invention of Heterosexuality” curato da Lisa Duggan e Jonathan Ned Kanz del 2007) che utilizzano a loro volta la metodologia del filosofo francese Michel Foucault.
Nella storia del pensiero, un grande contributo nell’identificare sessualità e procreazione venne dato dallo stoicismo. La stoà diede un contenuto alla sua idea di “vita retta secondo natura” ricorrendo esclusivamente al principio di (auto)conservazione, mettendo cioè al servizio dell’auto-conservazione il piacere e il dolore: buono era ciò che conservava, cattivo era ciò che distruggeva o non conservava. In una delle sue diatribe Musonio Rufo, filosofo romano del I secolo d.C., scrisse molto chiaramente:
«È pertanto d’uopo che quanti non sono dei dissoluti o dei viziosi ritengano giusti soltanto i piaceri venerei goduti all’interno del matrimonio e che sono finalizzati alla generazione di prole, poiché questi sono anche legittimi; e che ritengano invece ingiusti e illegittimi quelli miranti al mero piacere fisico, anche se goduti all’interno del matrimonio. Degli altri congiungimenti carnali, quelli adulterini sono sommamente illegittimi; né più accettabili di questi sono quelli di maschi con maschi, poiché un simile atto temerario è contro natura».
Per gli stoici, per Musonio Rufo e poi per i filosofi cristiani come Agostino e Tommaso, il solo sesso giusto e legittimo era quello che perseguiva la procreazione: tutto il resto (compreso l’atto eterosessuale non a scopo riproduttivo) andava invece condannato.
Va precisato che in questa fase la sessualità era centrata sugli atti, e distinta in base a criteri morali: atti secondo natura (ossia il coito eterosessuale come atto di procreazione) e atti amorali o perversi (tutti gli altri). Esistevano comportamenti sessuali catalogati e spesso proibiti, ma l’enfasi era sempre sull’atto, non sull’agente. I comportamenti sessuali non corrispondevano cioè ancora ad alcuna categoria dell’identità. Cosa cambiò? Vennero inventate nuove parole.
Dall’atto all’identità
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la sessualità divenne campo di indagine della medicina e della psicologia: e i comportamenti sessuali cominciarono a coincidere con delle tipologie identificabili di persone, catalogabili a quel punto secondo il loro desiderio o orientamento sessuale. Cominciarono a emergere allora altre fondamentali coppie di opposti: non più procreazione-non procreazione, ma normalità/anormalità e eterosessualità/omosessualità. I termini di origine religiosa (sodomia) o di origine classica (pederastia) vennero sostituiti da nuove parole e gli atti morali o amorali divennero l’espressione della sanità o della patologia di soggetti ben precisi, da includere o escludere dal nuovo mondo che si stava costruendo. Se per Michel Foucault «il sodomita era un recidivo», l’omosessuale era diventato «una specie».
Il finalismo procreativo-sessuale di matrice stoica e cristiana non venne abbandonato, ma trovò il suo compimento diventando, di fatto, un orizzonte rafforzato dai nuovi paradigmi scientifici: i corpi avevano per natura morfologie differenti ma complementari per una precisa finalità, quella riproduttiva. Il disegno della natura inscritta nei corpi prevedeva che i maschi e le femmine fossero eterosessuali, perché era la riproduzione della specie ad averne bisogno. E poiché la natura prevede che i due opposti si attraggano, in questo contesto cominciò ad affermarsi sempre di più un’opposizione di identità fondata sull’orientamento sessuale, una specie di essenza che rivelava la vera natura delle persone. L’orientamento sessuale prevedeva una conformità con il genere: il maschio non poteva che desiderare la femmina e viceversa. Il desiderio eterosessuale cominciò a definire perfino la biologia.
Un nuovo mondo: il maschio borghese
Per Michel Foucault a partire dal Diciottesimo secolo le relazioni sessuali cominciarono a essere organizzate in un “dispositivo” basato sulla proliferazione e sulla produzione di discorsi disciplinanti sul sesso. La nuova scientia sexualis voleva spiegare, descrivere, ma soprattutto “normalizzare” la sessualità per sostituirsi al sistema di controllo e di potere dell’era pre-moderna. Secondo Foucault tutto questo non aveva a che fare con una strategia di controllo sulla sessualità, ma al contrario con una strategia di controllo generale messa in pratica attraverso la sessualità.
Il progetto borghese di costruire a propria immagine e somiglianza un mondo moderno e un nuovo ordine sociale si saldò con la scientia sexualis del tempo e con la necessità di fondare una nuova disciplina dei corpi e dei piaceri. Se i ceti sociali erano attribuiti, l’appartenenza alla classe era invece una questione di risultati: ci si entrava, non ci si nasceva, e questa appartenenza aveva bisogno di essere costantemente definita e rifondata. La borghesia – che si distingueva attraverso il lavoro e l’autodisciplina – aveva bisogno di imporsi sulla dissolutezza dell’aristocrazia decadente e sull’anarchia sessuale delle classi povere alle quali vennero attribuite delle specifiche (e cattive) condotte morali. La borghesia cominciò dunque a costruire la propria differenza su precisi modelli di comportamento e a proteggersi attraverso un sistema riproducibile e applicabile universalmente.
I nuovi ideali di virilità del maschio borghese, fatto per produrre, agire, conquistare e sacrificarsi, divennero l’autocontrollo delle passioni, la moderazione, la decenza e il vigore. E nel frattempo i saperi medici fissavano i confini da cui il modello del maschio borghese doveva tenersi lontano: per esempio dalla masturbazione, considerata causa di perdita di vigore, e dall’omoerotismo. Se il sesso procreativo era fondamentale per la continua evoluzione e difesa della specie, deviando in qualsiasi modo da quella norma si creava una minaccia per l’intera società. A quel punto la devianza non poteva più essere semplicemente un atto che violava la legge divina e che poteva appartenere a chiunque, ma doveva essere ben riconoscibile, fissarsi, incarnarsi in un determinato individuo in carne e ossa da punire o da curare.
Nuove parole
Al fondamentale passaggio dai comportamenti alle identità contribuirono proprio i precursori delle contemporanee politiche dell’identità omosessuale. I termini “eterosessuale” e “omosessuale”, utilizzati prima nella sessuologia tedesca e poi in quella internazionale, furono inventati e usati per la prima volta da una serie di studiosi dell’Ottocento che volevano superare la visione della colpa e del vizio tipica del mondo cristiano per arrivare alla depenalizzazione di alcuni comportamenti negli statuti nazionali che si andavano formando o rinnovando in quel periodo storico. Se da una parte questi primi studiosi crearono un sistema di tipologie sessuali, dall’altra dettero sostanza alla classificazione di una serie di individui più o meno lontani dalla norma. Per questi primi teorici l’omosessualità era un fatto congenito, quindi non c’era alcun motivo di proibirla o condannarla: se un uomo era spinto verso altri uomini, non ne era responsabile e non poteva essere condannato. Razionalizzando questa differenza non ottennero però il risultato di proteggerla, bensì di tracciarne i confini.
Verso la fine del 1860 il letterato ungherese Karl Maria Kertbeny, usò quattro termini per descrivere i soggetti di determinate esperienze sessuali distinte in base all’orientamento sessuale: eterosessuale, omosessuale e altre due definizioni ormai dimenticate che indicavano chi praticava la masturbazione e la zoofilia. Le parole di Kertbeny comparvero per la prima volta in una lettera indirizzata al ministro della Giustizia prussiano, impegnato in quegli anni ad unificare i codici civili e penali dei vari stati che erano entrati a far parte del Regno di Prussia. Numerosi giuristi e intellettuali parteciparono al progetto di codice penale unitario facendo conoscere i loro suggerimenti e commenti. Nel codice prussiano del 14 aprile 1851 c’era un paragrafo che puniva gli “atti contro natura” commessi tra uomini e con gli animali; temendone un’estensione anche al nuovo codice unitario, Kertbeny scrisse al ministro per sostenere che lo Stato non aveva diritto di intromettersi nel comportamento sessuale delle persone. Kertbeny non ebbe fortuna e il paragrafo già esistente fu introdotto nel nuovo codice penale della Confederazione. Per difendere chi veniva accusato di sodomia, Kertbeny inventò delle categorie e le mise in parallelo, basando la loro distinzione soprattutto su un parametro quantitativo.
Lorenzo Bernini, direttore del Centro di ricerca PoliTeSse – Politiche e Teorie della Sessualità, dell’Università di Verona, uno dei pochi espressamente dedicati agli Studi di genere e femministi e alle teorie queer in Italia – ha spiegato al Post che «con il termine “omosessualità” Kertbeny intendeva rivendicare la virilità degli uomini che sono attratti sessualmente da altri uomini e cioè la loro piena identificazione maschile». Nello stesso periodo Magnus Hirshfeld coniò invece i termini di uranismo, travestitismo, transessualità. «A suo avviso, queste tre condizioni erano gradazioni di quello che lui chiamava ‘terzo sesso’ o ‘condizione sessuale intermedia’. Gli uranisti erano quindi per lui, come le transessuali, degli “invertiti”: anime di donna in corpi maschili. Il loro desiderio per gli uomini era quindi, in fondo, un desiderio che oggi definiremmo eterosessuale».
Quando nel 1889 lo psichiatra e neurologo Richard von Krafft-Ebing scrisse Psychopathia sexualis, primo tentativo di studio sistematico dei comportamenti sessuali cosiddetti devianti, pur descrivendo centinaia di casi clinici usò la parola “eterosessualità” solo poche decine di volte, scegliendo anche di non indicizzarla. E questo perché Krafft-Ebing era più interessato agli “istinti sessuali contrari”, contrari a quella normalità che dava per scontata l’utilità procreativa dell’atto sessuale («L’omosessualità è l’eccezione e l’eterosessualità è la regola», dichiarava). Ma fece qualcosa in più: non solo Krafft-Ebing dava l’etica sessuale procreativa per scontata, ma la collocava all’interno della coscienza: «Nell’amore sessuale il genuino scopo finale dell’impulso, che è la propagazione della specie, non affiora alla coscienza». La mossa fu dunque quella di posizionare la questione riproduttiva direttamente all’interno dell’inconscio come se l’istinto sessuale contenesse qualcosa di simile a uno scopo procreativo, che è sempre presente. Definire che cosa fosse un istinto sessuale normale secondo il desiderio erotico e lasciare la procreazione implicita fu una rivoluzione fondamentale per pensare al sesso e il lavoro di Krafft-Ebing pose le basi per il cambiamento culturale che avvenne tra il 1923 e il 1934: dalla definizione di eterosessualità come “morbosa” e quella del 1934 come “normale”.
La psicanalisi ebbe un ruolo fondamentale nel collocare le origini della sessualità nella personalità dell’individuo e nel costruire l’opposizione tra eterosessualità ed omosessualità. Freud, riprendendo i primi studi di sessuologia e i primi tentativi di inquadramento biologico dei corpi e dei loro desideri come fedeli o non fedeli al sesso, sostenne che l’omosessualità non era nulla di cui vergognarsi, ma semplicemente la conseguenza di uno sviluppo interrotto. L’esito compiuto e corretto di questo sviluppo era invece quello eterosessuale, quello cioè verso la funzione riproduttiva. Il resto era un difetto rispetto alla norma. Nonostante le innovazioni rispetto alle precedenti teorie mediche della sessualità, la psicoanalisi continuò a presupporre una sessualità finalisticamente e biologicamente orientata verso un esito innato, maturo, normale: l’eterosessualità, necessaria alla riproduzione.
Nel 1948 Alfred Kinsey scoprì che gran parte della popolazione maschile aveva fatto una qualche esperienza omosessuale tra l’adolescenza e la vecchiaia, ma la sua misurazione in scala – che andava da zero (esclusivamente eterosessuali) a sei (esclusivamente omosessuali) – non fece altro che ribadire l’idea di una sessualità rigidamente organizzata. A questo punto della storia, negli anni Cinquanta del Novecento, cominciarono a consolidarsi quei criteri con cui ancora oggi vengono definite le identità sessuali, criteri basati su una rigida dualità e su precise “specie”, sopra una realtà che si presentava (e si presenta) però in modo ben diverso.
La categoria insufficiente
L’identità sessuale, oggi, viene definita in base a tre parametri: sesso, genere e orientamento sessuale. Spiega Bernini: «Sono tre criteri binari di cui oggi in tutto il mondo si servono non soltanto la maggior parte degli psichiatri, degli psicologi e dei sessuologi, ma anche dei sistemi giuridici, per definire e classificare le identità sessuali. Criteri che così pensati non fanno che confermare la regola, e cioè che il desiderio eterosessuale definisca persino la biologia». Bernini fa l’esempio della guida della SIPSIS (Società Italiana di Psicoterapia per lo Studio delle Identità Sessuali) del 2015 in cui si dice che il sesso fa riferimento al corpo biologico maschile e femminile in quanto «preposto alla funzione riproduttiva» e quindi al coito eterosessuale. Il genere, nella guida, fa invece riferimento al senso di sé di un soggetto e cioè al suo identificarsi come maschio o femmina a seconda di ciò che la società a cui appartiene riconosce come proprio del maschio e della femmina: «Per fare un esempio: un maschio che ami truccarsi e indossare abitualmente gonna e tacchi alti difficilmente sarà percepito come ‘pienamente uomo’ dalla nostra società», spiega Bernini. Il terzo fattore che determina l’identità sessuale, nella guida SIPSIS, è l’orientamento sessuale cioè la direzione dei propri desideri, che può essere nei confronti dei membri del sesso opposto, dello stesso sesso o di entrambi (per cui ci si può identificare rispettivamente come eterosessuali, omosessuali o bisessuali).
«Il sistema classificatorio sesso-genere-orientamento sessuale può essere indubbiamente utile per iniziare a comprendere la complessità delle identificazioni e dei desideri sessuali», dice Bernini. «Si tratta tuttavia di una semplificazione, che diventa pericolosa se viene intesa in senso esclusivamente binario secondo le contrapposizioni maschio-femmina, donna-uomo, eterosessuale-omosessuale, e se in questo modo viene assolutizzata e naturalizzata. Bisogna sempre tenere presente che tale sistema è una griglia interpretativa della realtà, non la realtà stessa. Una griglia che la comunità scientifica deve essere disposta ad aggiornare se la realtà si rivela più complessa del previsto. Di fronte alla molteplicità delle identificazioni possibili emerse nel corso dell’ultimo mezzo secolo nei movimenti LGBTQI, il sistema sesso-genere-orientamento sessuale si è rivelato imperfetto, insufficiente e contraddittorio. Gli ideal-tipi che esso produce (“l’Uomo”, “la Donna”, ma anche “l’Eterosessuale”, “l’Omosessuale” e così via) si sono talvolta rivelati assai lontani dalle esperienze dei soggetti che dovrebbe descrivere. Prendiamo l’esempio dell’effeminatezza gay, non prevista dalla rigida distinzione tra genere e orientamento sessuale, o quello di uomini che praticano sesso con uomini senza riconoscersi per questo come omosessuali o bisessuali. Lo stesso vale per la mascolinità lesbica, e per le donne né lesbiche né bisessuali che praticano sesso con donne».
Le proposizioni descrittive del sistema sesso-genere-orientamento sessuale diventano quindi normative, una specie di obbligo sociale che ha un preciso fondamento biologico: “così è secondo natura” diventa automaticamente “così deve essere secondo natura”. «La definizione di sesso come complementarità dei corpi nel coito eterosessuale che ancora si trova nella guida SIPSIS è ad esempio responsabile degli interventi chirurgici che dagli anni Cinquanta sono stati praticati sui genitali dei bambini intersex, per renderli atti all’unica pratica sessuale ritenuta “normale”. La stessa definizione», prosegue Bernini, «è responsabile del trattamento giuridico che è stato riservato in Italia alle persone transgender fino al 2015: il cambio di sesso anagrafico veniva concesso dai tribunali soltanto a condizione che la persona interessata si sottoponesse a intervento di chirurgia genitale. Nel 2015 due importanti sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale hanno finalmente stabilito che tali interventi non sono necessari. E ancor più di recente, nel febbraio 2017, una risoluzione del Parlamento europeo ha condannato gli interventi di mutilazione genitale sui bambini intersex. Molta strada deve essere ancora percorsa per contrastare le discriminazioni e le violenze che i saperi medici e psicologici, il diritto, il senso comune perpetrano nei riguardi delle minoranze sessuali. Un passo è anche mobilitare la nostra percezione dell’identità e del desiderio sessuali. Occorre comprendere che l’esperienza sessuale degli umani non è riducibile a nette distinzioni binarie che si combinano in modo così limitato, ma che, come afferma la biologa femminista Fausto-Sterling, il sesso, il genere, l’orientamento sessuale dovrebbero essere concettualizzati come punti di uno spazio a più dimensioni».
La conseguenza dell’applicazione di una griglia teorica costruita su un rigido binarismo è invece quella di escludere o di ridurre tutto quel che eccede, tutte quelle combinazioni e situazioni intermedie sia per quanto riguarda il sesso, che il genere e l’orientamento sessuale: «Le alternative binarie di tale sistema non si limitano a semplificare drasticamente la gamma delle identità sessuali possibili, ma sono anche vettori di potere: nella psichiatria e nel diritto queste categorie non hanno rivestito una funzione meramente descrittiva, ma sono servite per lungo tempo, e talvolta servono ancora oggi, a istituire un ordine gerarchico riconoscendo solo ad alcune categorie di persone l’appartenenza a un’umanità “sana”, “normale”, “piena” e quindi pienamente meritevole di tutela giuridica. Si pensi alla legge italiana sulle unioni civili recentemente approvata, che sicuramente è una conquista, ma al tempo stesso perpetua la discriminazione delle coppie lesbiche e gay, riservando loro uno specifico istituto giuridico e una specifica formazione sociale diversi dal matrimonio e dalla famiglia, che restano riservati alle persone eterosessuali».
Nella realtà, conclude Ambrosino nel suo articolo, la linea di demarcazione tra eterosessualità e omosessualità non è solo poco chiara, ma anche un mito piuttosto datato. Gli uomini e le donne continueranno ad avere un sesso biologico diverso e continueranno ad esserci uomini che desiderano esclusivamente donne e viceversa. Ma l’eterosessualità, come marcatore sociale, come modo di vita, come identità, come norma che ordina l’intera società, dovrebbe essere superata.