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  • Sabato 1 luglio 2017

Com’è oggi Hong Kong, 20 anni più vecchia

Il primo luglio 1997 la sua sovranità passò dai britannici ai cinesi: da allora è stata una storia di promesse non mantenute e modelli che non lo sono più

Sostenitrici del governo di Pechino si preparano alle celebrazioni che si terranno a Hong Kong per i 20 anni dal trasferimento di sovranità (AARON TAM/AFP/Getty Images)
Sostenitrici del governo di Pechino si preparano alle celebrazioni che si terranno a Hong Kong per i 20 anni dal trasferimento di sovranità (AARON TAM/AFP/Getty Images)

Il 30 giugno 1997 Chris Patten, ultimo governatore britannico di Hong Kong, tenne il discorso più importante della sua vita, trasmesso dalle televisioni di tutto il mondo. Era la vigilia del trasferimento della sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina comunista: il dominio coloniale britannico era iniziato durante la Prima guerra dell’oppio, nel 1841, ed era durato 156 anni. Patten chiuse il suo discorso dicendo: «Ora sarà il popolo di Hong Kong a governare Hong Kong. Questa è la promessa. E questo è il suo inevitabile destino». La cerimonia si tenne in un grande centro congressi nel nord dell’isola di Hong Kong e durò fino al giorno successivo, l’1 luglio 1997, esattamente vent’anni fa.

Nel 1997 Hong Kong era vista come un modello di quello che la Cina un giorno sarebbe potuta diventare: prospera, moderna, internazionale, con delle leggi solide che regolavano l’amministrazione pubblica. Mentre dalla fine della Seconda guerra mondiale nella Cina comunista si era sviluppato un rigido sistema economico controllato dallo Stato, a Hong Kong c’era il capitalismo e un governo che sembrava facesse funzionare tutto alla perfezione. Dal 1997 ad oggi, però, a Hong Kong le cose non sono andate come in molti si aspettavano: soprattutto negli ultimi anni le tensioni politiche tra i sostenitori della Cina comunista e quelli favorevoli a più autonomia e democrazia sono diventate sempre più insostenibili. Il New York Times ha descritto così quello che è successo:

«La percezione di Hong Kong come qualcosa di speciale, un crocevia importante tra est e ovest che la Cina avrebbe potuto emulare, sta declinando rapidamente. La mai risolta disputa tra la leadership cittadina appoggiata dal governo di Pechino e l’opposizione che chiede più democrazia ha paralizzato l’abilità del governo di prendere decisioni difficili e di completare importanti progetti di costruzione. Bloccate tra due modi di governare – quello dei dettami di Pechino e quello condizionato dalle domande degli abitanti locali – le autorità hanno permesso che i problemi si inasprissero. Tra questi, una crisi che riguarda i costi delle case, un sistema educativo traballante e una linea ad alta velocità il cui completamento è continuamente rimandato.»

Quando la sovranità di Hong Kong passò ad essere cinese, il governo di Pechino adottò lo slogan “One country, two system”, “Un paese, due sistemi”, riconoscendo allo stesso tempo due cose: che Hong Kong sarebbe diventata a tutti gli effetti parte della Cina comunista, ma che avrebbe potuto comunque mantenere il suo sistema capitalistico e le sue caratteristiche democratiche. Le cose andarono bene per diversi anni, almeno fino all’arrivo della crisi finanziaria – che a Hong Kong si fece sentire parecchio – e ad alcune decisioni del governo locale che portarono a una situazione di generale impoverimento. Il settore immobiliare entrò in crisi e i prezzi delle case cominciarono a raggiungere livelli mai visti e pressoché insostenibili per gran parte della popolazione; cominciarono a diffondersi le cosiddette “gabbie”, cioè degli appartamenti fatiscenti allestiti con delle gabbie di rete metallica di meno di due metri quadrati posizionate una sopra all’altra. E poi, nel 2014, arrivò il Movimento degli ombrelli.

HONG KONG CAGED MANLe gabbie di Hong Kong (AP Photo/Dick Fung)

Quell’anno si diffusero grandi proteste contro le sempre maggiori ingerenze del governo cinese negli affari di Hong Kong. Decine di migliaia di persone cominciarono a manifestare tutti i giorni chiedendo più autonomia e democrazia, oltre che le dimissioni del governatore locale Leung Chun-ying, ritenuto troppo vicino al governo di Pechino. Al Movimento degli ombrelli, che fu chiamato così perché il segno di riconoscimento dei manifestanti divenne l’ombrello, parteciparono diversi gruppi e organizzazioni già esistenti che già nei mesi precedenti avevano promosso grandi proteste: tra le altre c’era anche Scholarism, il gruppo guidato dal giovanissimo Joshua Wong, la cui storia è stata raccontata in un recente documentario prodotto da Netflix. Secondo molti osservatori, la cosa che ha fatto cambiare il clima politico a Hong Kong negli ultimi anni – al di là della crisi economica e dei problemi già esistenti – è stato proprio l’emergere di un nuovo attivismo politico tra i ragazzi molto giovani, meno disposti degli attivisti più anziani a scendere a compromessi con il governo cinese.

Il governo di Hong Kong ha cominciato a trovarsi sempre più spesso nella situazione di non voler prendere vere decisioni, anche su questioni importanti, per evitare di arrivare allo scontro aperto con i suoi oppositori e allo stesso tempo per non scontentare il governo di Pechino. Il fatto è che i problemi considerati centrali da entrambe le parti continuano a sembrare insolubili. I sostenitori della democrazia chiedono da anni il suffragio universale e l’elezione diretta e libera del proprio governatore, mentre il governo di Pechino pensa che facendo queste concessioni perderebbe di fatto il controllo su Hong Kong. Da diverso tempo a Hong Kong le manifestazioni per chiedere più democrazia sono poche: secondo alcuni, gli eventi del 2014 hanno contribuito comunque a diffondere tra gli abitanti locali un sentimento di grande diffidenza nei confronti del regime della Cina comunista, secondo altri quello che è rimasto è semplicemente rassegnazione.

Hong Kong sta vivendo anche altri problemi. Dal 1997 a oggi più di un milione di abitanti della Cina continentale si è spostato a Hong Kong, contribuendo alla sua crescita ma allo stesso tempo riducendo le possibilità lavorative degli abitanti locali. Le grandi banche e società multinazionali si sono mostrate sempre più inclini ad assumere i cinesi della Cina continentale e che parlano mandarino, invece che gli abitanti di Hong Kong che parlano come prima lingua cantonese. Alle tensioni nel mondo del lavoro e alle richieste di maggiore democrazia si sono aggiunte molte altre cose: per esempio la decisione del governo locale di inserire “materiale patriottico” nei programmi scolastici delle scuole di Hong Kong, dove per “patriottico” si intende una glorificazione del Partito comunista cinese; oppure la scomparsa di cinque librai critici verso la Cina comunista, per cui è stato accusato il governo di Pechino.

Xi Jinping,Leung Chun-ying,Carrie LamIl presidente cinese Xi Jinping, al centro, canta durante una cerimonia tenuta a Hong Kong il 30 giugno 2017 (AP Photo/Kin Cheung)

Molti sostengono che la lotta politica che si è inasprita negli ultimi anni abbia paralizzato il futuro di Hong Kong, e forse abbia contribuito all’inizio del suo declino. Il New York Times ha scritto che oggi Hong Kong non è più una città vista come un modello per la Cina comunista, ma come qualcosa di diverso, una specie di avvertimento: per il governo di Pechino e i suoi alleati riguardo ai pericoli della democrazia, e delle richieste di più democrazia; per l’opposizione di Hong Kong, riguardo ai pericoli di un sistema autoritario che ci si rifiuta di cambiare. Intanto a fine marzo è stata selezionata la nuova governatrice di Hong Kong, scelta da un comitato di circa 1.200 membri, la maggior parte dei quali alleati del governo di Pechino: si chiama Carrie Lam, si insedia oggi e non sembra che il suo governo avrà vita facile.