Le dimissioni di Tony Blair, dieci anni fa
Come finì la carriera di uno dei più vincenti politici britannici del dopoguerra, anche a causa di un patto col suo più grande alleato e rivale
Il 27 giugno del 2007 Tony Blair si dimise da tutti gli incarichi politici che ricopriva: leader del Partito Laburista, primo ministro del Regno Unito e deputato. Da dieci anni guidava il governo britannico e da tredici il Partito Laburista. Nella sua carriera era riuscito a cambiare radicalmente la sinistra britannica e influenzare quella di tutto il resto d’Europa. Aveva ottenuto alcune delle vittorie elettorali più sonanti della storia del Regno Unito, nonostante il suo partito venisse da decenni di umilianti sconfitte, lasciandosi alle spalle un’eredità politica ancora oggi molto discussa. A farlo cadere furono soprattutto la scelta di affiancare il presidente americano George W. Bush nella guerra in Iraq e un patto vecchio di 13 anni sottoscritto con Gordon Brown, il suo più grande alleato e rivale insieme, che lo avrebbe sostituito alla guida del Regno Unito.
Blair e Brown, all’epoca i due politici emergenti più forti del Partito Laburista, si erano incontrati nel 1994 nel ristorante Granita di Islington, un quartiere a nord di Londra. Pochi giorni prima era morto il leader del partito John Smith e i due stavano discutendo di come organizzare la sua successione. Dall’incontro uscì un accordo per evitare di farsi la guerra e spartirsi il potere all’interno del partito. Blair sarebbe diventato il nuovo leader e quindi il candidato primo ministro, perché giudicato quello che aveva più possibilità di vincere. In caso di vittoria Brown sarebbe divenuto cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro dell’Economia, e avrebbe avuto ampi poteri sulla politica interna. I dettagli dell’accordo non vennero mai resi pubblici, ma a quanto sembra Blair accettò di cedere la leadership a Brown in qualche momento del futuro.
Le cose però andarono diversamente. Alle elezioni del 1997 Blair stravinse, ottenendo 13,5 milioni di voti, il 43 per cento del totale. Per la prima volta dopo 18 anni, i Laburisti tornarono al potere e lo fecero con una delle maggioranza più ampie che si fossero mai viste. Durante la campagna elettorale, Blair si era rivelato un leader estremamente abile e popolare. Approfittò delle divisioni nel Partito Conservatore per portare avanti un programma centrista (disse che i Laburisti erano un partito di “centro radicale”). Cercò di recuperare voti dai conservatori delusi e ci riuscì benissimo. Terminati i conteggi, il Partito conservatore si ritrovò con meno di metà dei seggi che aveva fino al giorno prima.
Negli anni successivi, Blair continuò a diventare sempre più popolare. Mantenne la promessa di spostare il partito verso il centro, soprattutto sui temi economici. Criticò i sindacati, che in certi momenti storici erano arrivati a dominare il partito, e mantenne in vigore la riforma del settore di Margaret Thatcher, che molti volevano abolire. Introdusse le “tuition fee”, le rette universitarie piuttosto care che sono in vigore ancora oggi, ma cercò comunque di non scontentare l’elettorato tradizionale del partito e investire molto nella sanità e nella scuola pubblica. Introdusse per la prima volta il salario minimo e portò avanti numerose politiche ambientaliste. Con una serie di successi alle spalle e una popolarità che nessun politico aveva dai tempi di Margaret Thatcher, Blair si candidò nuovamente alle elezioni del 2001 e vinse ancora una volta.
Non è chiaro quando, ma sembra evidente che a un certo punto di questa serie di successi Brown abbia ritenuto che il suo patto con Blair – il “Granita Pact”, nel gergo della politica britannica – fosse stato tradito. Blair non sembrava avere intenzione di lasciare il suo incarico e di rispettare il misterioso accordo di Islington. Le riunioni dei ministri iniziarono a diventare uno scontro continuo tra i sostenitori di Brown e quelli di Blair. Diversi politici che parteciparono a quelle riunioni hanno raccontato che era come se ci fosse una «frattura» dentro il governo laburista e che per i ministri del partito «era come essere figli di due genitori che litigano». Raramente però l’opinione pubblica assistette a manifestazioni plateali di questo dissenso: Brown e Blair si mostravano sempre vicini e solidali, anche se “dietro le quinte” lo scontro diventava sempre più profondo.
Nel 2004, all’epoca del decimo anniversario del patto che Brown riteneva essere stato tradito, Blair commise quello che molti hanno ritenuto il suo più grave errore politico, almeno sul piano del consenso personale. All’epoca era sotto pesanti pressioni politiche per aver coinvolto il Regno Unito nella guerra in Iraq voluta da George W. Bush, sulla base di prove che apparivano inconsistenti sulla presenza di armi di distruzione di massa e sulla volontà del regime di Saddam Hussein di utilizzarle ancora come in passato. Molti elettori erano scontenti anche delle difficoltà che stavano incontrando le truppe di occupazione, dei soldati morti e feriti e del disordine che continuava a perdurare in Iraq.
In calo di popolarità e sotto la pressione dei sostenitori di Brown, Blair annunciò che avrebbe partecipato alle successive elezioni del 2005, che in caso di vittoria avrebbe governato per un intero mandato e che poi avrebbe ceduto il posto al suo successore. Come scrisse l’allora giornalista politico di BBC Nick Assinder, la mossa gli permise di prendere tempo – molti immaginavano che Blair si sarebbe ritirato prima delle elezioni del 2005 – ma lo rese anche politicamente più debole: un leader che promette di ritirarsi in cinque anni, infatti, perde potere contrattuale e politico ogni giorno che passa e può essere spinto a ritirarsi anche prima. Blair riuscì a ottenere una terza storica vittoria, nel 2005, ma perse più di 60 deputati rispetto al 2001; i sostenitori di Brown iniziarono da subito a chiedergli di accelerare le sue dimissioni.
Blair cercò di resistere, ma non ci riuscì a lungo. Al ritorno dalle ferie estive del 2006 durante un’intervista fece intendere che sarebbe rimasto primo ministro per almeno un altro paio d’anni, forse di più. I sostenitori di Brown nel governo si dimisero, Blair ricevette una lettera di critiche firmata da numerosi parlamentari ed ebbe un burrascoso incontro con Brown. Non si dimise subito ma a settembre disse che avrebbe lasciato il suo incarico entro un anno. Otto mesi dopo si dimise, tra le polemiche sempre più forti per la sua decisione di combattere in Iraq e sotto la pressione di Brown e dei suoi sostenitori, impazienti di prendere la guida del partito.
Il 10 maggio del 2007 Blair annunciò che il mese successivo si sarebbe dimesso. Nel suo discorso finale, tenuto al sede del partito di Trimdon, Blair parlò per 17 minuti. Chiese scusa per le sue mancanze da leader e per le speranze e le promesse suscitate e non mantenute. Disse che il popolo britannico era speciale e che il Regno Unito è il più grande paese del mondo. Alla fine del discorso disse: «Con la mano sul cuore, vi dico che ho sempre fatto quello che pensavo fosse giusto. Posso aver sbagliato, sarete voi a giudicarmi. Ma ho sempre fatto quello che ho ritenuto fosse il meglio per il nostro paese».
Brown fu tra i primi a congratularsi con lui: «Penso di parlare per milioni di persone quando dico che cioè che ottenuto Tony Blair è senza precedenti, unico e che durerà a lungo», disse. Come previsto, il giorno stesso, il 27 giugno, divenne leader del partito e quindi primo ministro: nel sistema britannico il primo ministro è il leader del partito di maggioranza parlamentare. Brown rimase in carica poco meno di tre anni; alle elezioni del 2010, infatti, i laburisti persero la maggioranza a vantaggio dei Conservatori. Cercarono di allearsi con i Libdem per formare una maggioranza, ma senza successo perché questi si allearono con i Conservatori di Cameron. Il giorno stesso Brown diede le sue dimissioni da tutti i suoi incarichi. Alla guida del partito gli successe Ed Miliband. Da allora, i laburisti non sono più riusciti a vincere un’elezione; Brown, come Blair, si è ritirato dalla vita politica britannica.