Cosa vuol dire “desueto”
È una parola che si usa poco e che significa "non più in uso": una parola desueta, insomma
di Massimo Arcangeli
Nell’aprile del 2007 il sito di un quotidiano lanciò un sondaggio in cui si chiedeva ai lettori virtuali di indicare una o più parole da salvare – quasi tutte uscite dall’uso – in una lista di quaranta. Prima classificata fu desueto (19%), seguita da missiva (12%), baloccarsi (9%), acquavite (8%), biascicapaternostri e mezzala (5%), arruffamatasse, omnibus e rumentiera (3%), afroroso, babbio, chauffeur, frigidaire, invacchire, moscardino (“bellimbusto”), pipita, ribotta e senapismo (2%).
Desueto, nell’italiano corrente, vuol dire disusato: una parola desueta, dunque, è una parola non più in uso. In passato il vocabolo fu anche sinonimo di disabituato, disavvezzo, disavvezzato. Quest’ultimo significato, di cui oggi si avverte il tono fortemente letterario, è stato ereditato dal latino: desuetus, nell’antica lingua di Roma, era il participio presente di desuescere (“perdere l’abitudine”), un composto di de– (con valore negativo) e suescere (“assuefare”, “assuefarsi”). Da desueto ha tratto origine desuetudine (“disabitudine”), alla cui base c’è un’altra parola latina: desuetudo (la mancanza d’abitudine all’uso delle armi, per es., era detta desuetudo armorum). Anche desuetudine non si usa oggi praticamente più. Trova una qualche applicazione solo in ambito giuridico, dove la desuetudine, si legge sul dizionario Zingarelli, consiste nella «[c]essazione di validità di una norma a causa della sua inosservanza prolungata nel tempo; non è ammessa dall’ordinamento giuridico italiano».
Un quadro abbastanza chiaro e lineare, ma non per chi un vocabolo come desueto lo usa sempre meno e, quando lo usa, lo usa male. Una giornalista del Giornale Radio 1 (Gr1), il 22 giugno scorso, nel commentare il compito di matematica da svolgere per l’esame di maturità l’ha definito «complesso quanto desueto». Avrà voluto dire inconsueto, naturalmente, ed è significativo che non poche fra le 196 matricole universitarie, da me interpellate nel 2011, cui era richiesto di indicare uno o più sinonimi per ciascuna delle parole proposte, abbiano risposto, oltreché con inconsueto (17), con altri aggettivi di valore abbastanza simile: insolito (18), inusuale (11), raro (4), non comune (4), poco usato (4), non consueto (3), non usuale (1), ecc.
Si sono comportati meglio degli altri componenti del campione che hanno rovesciato il significato di desueto, spiegandolo con solito («È desueto andare in palestra) o con frequente («Era un incontro desueto»), ma resta il problema di un desueto sconosciuto sia agli uni sia agli altri.
Alla vigilia del Festival “Parole in cammino” che si è tenuto ad aprile a Siena, il suo direttore Massimo Arcangeli – linguista e critico letterario – ha raccontato pubblicamente le difficoltà che hanno i suoi studenti dell’università di Cagliari con molte parole della lingua italiana appena un po’ più rare ed elaborate, riflettendo su come queste difficoltà si estendano oggi a molti, in un impoverimento generale della capacità di uso della lingua. Il Post ha quindi proposto ad Arcangeli di prendere quella lista di parole usata nei suoi corsi, e spiegarne in breve il significato e più estesamente la storia e le implicazioni: una al giorno.
Il nuovo libro di Massimo Arcangeli, “La solitudine del punto esclamativo“, è uscito il primo giugno per il Saggiatore.