Hollywood ci ha preso gusto con il ringiovanimento digitale degli attori
Forse troppo: la tecnologia permette di far recitare a un attore una versione molto più giovane di se stesso, ma è proprio il caso?
Invecchiare un attore è facile e costa poco: basta avere molto tempo per truccarlo, aggiungergli rughe e sbiancargli i capelli. È invece molto più complicato ringiovanirlo di 20 o 30 anni e ottenere un risultato credibile. Alcuni importanti film usciti negli ultimi anni lo hanno fatto grazie alla CGI: la Computer Generated Imagery, che permette di sfruttare la computer grafica per creare immagini digitali. Si prende un attore, lo si fa recitare e poi in digitale lo si fa ringiovanire di 20, 30 o 40 anni. Questa tecnica si chiama digital de-aging, ringiovanimento digitale: costa molto (tempo e soldi) e permette risultati che qualche anno fa erano impensabili. A qualcuno piace molto, ad altri piace pochissimo.
Il primo attore su cui è stata usata questa tecnica è stato Brad Pitt, protagonista di Il curioso caso di Benjamin Button; è stata poi usata con Michael Douglas in Ant-Man, con Robert Downey Jr. in Captain America: Civil War, con Anthony Hopkins in Westworld (sì, lo fanno anche le serie tv) e, più di recente, con Kurt Russell in Guardiani della Galassia Vol. 2 e a Johnny Depp in Pirati dei Caraibi: La Vendetta di Salazar. Succederà quasi di certo anche a Robert De Niro – e forse anche ad Al Pacino – per The Irishman, il prossimo e molto atteso film di gangster di Martin Scorsese, quello per cui Netflix ha speso un capitale. Ed Ulbrich, presidente della società che si è occupato del ringiovanimento digitale di Brad Pitt, ha detto: «Penso che siamo agli albori dell’animazione umana, con personaggi completamente credibili».
Michael Cavna del Washington Post ha per esempio apprezzato molto quello di Russell in Guardiani della Galassia Vol. 2, scrivendo che è così naturale ed efficace da lasciare a bocca aperta. Ad altri il ringiovanimento digitale piace molto meno: tra loro c’è Andrew Gruttadaro, che su The Ringer lo ha definito «una soluzione imperfetta a un problema che non esisteva».
Per fare il ringiovanimento digitale si prende l’attore vero, in questo caso Russell, e gli si chiede di recitare la scena. Poi si prende un altro attore più giovane – e somigliante all’attore originale – e gli si chiede di recitare di nuovo quelle stesse scene. Poi si mischiano e si perfezionano le due cose con il digitale. Come ha detto James Gunn, il regista di Guardiani della Galassia Vol. 2: «Alla fine, per farla breve, abbiamo preso le scene di Kurt [Russell] e abbiamo unito parte della pelle di Aaron [l’altro attore] sul corpo di Kurt, e sulla sua interpretazione delle scene». Gunn ha poi detto: «Non costa poco e non è semplice. Per fare quelle scene abbiamo impiegato tutto il tempo a disposizione per la post-produzione».
Il ringiovanimento digitale è la più recente evoluzione di cose che già si facevano: la più semplice si chiama beauty work – lavoro di bellezza – e sta alla faccia degli attori come i ritocchi su Photoshop stanno alle vostre foto. Senza che ci sia bisogno di un doppio, dopo aver girato una scena, in post-produzione si sistemano i dettagli, si toglie qualche ruga, si fa sparire qualche brufolo. Poi c’è la performance enhancement, che è un po’ più complessa ma non richiede comunque un attore diverso da quello vero. È usata per rimuovere sudore dal viso degli attori, ed è stata usata nel film di pugilato Southpaw – L’ultima sfida per far sì che i pugni sembrassero più vicini alla faccia dei pugili di quanto in realtà fossero.
Un’evoluzione ancora più estrema del ringiovanimento digitale è invece il ghosting, quella cosa che si fa quando si ricrea in digitale la recitazione di un attore che è morto: come è stato fatto con Peter Cushing per Rogue One, il primo spinoff della saga di Star Wars. Il ghosting è stato criticato soprattutto per le questioni legali: come si fa a sapere se un attore avrebbe dato il consenso? Come si gestisce quell’interpretazione? Banalmente, di chi è quell’interpretazione?
Più che etiche e legali, le discussioni legate al ringiovanimento digitale sono pratiche. Manhola Dargis ha scritto sul New York Times che è solo «una distrazione che fa vedere che il regista ha preso una decisione sbagliata solo perché poteva permettersi di prenderla». Secondo Gruttadaro – il cui articolo su The Ringer è intitolato “Dobbiamo smetterla con il ringiovanimento digitale” – i registi stanno usando una nuova tecnologia solo perché ce l’hanno a disposizione; basterebbe fare come si è sempre fatto: evitare flashback che creino problemi di questo tipo o, se proprio si deve, cercare giovani attori che somiglino a quelli più anziani. Per Gruttadaro, oltre che inutile e dispendioso, il ringiovanimento digitale è inquietante – «da spettatore non ti sembra di vedere una persona ma un’entità che imita una persona» – e «qualcosa di cui ti accorgi subito». Gruttadaro ha scritto che gli attori che sono stati usati per fare i giovani Depp e Russell – Anthony De La Torre e Aaron Schwartz – alla fine gli somigliano; sarebbero quindi andati benissimo per fare i giovani Depp e Russell anche senza l’uso del digitale.
Depp con De La Torre (Marc Flores/Getty Images for Disney) e, sotto Russell e Aaron (Larry Busacca/Getty Images e Rich Fury/Getty Images for Circle 8 Productions)
Anche perché proprio De Niro – che sarà ringiovanito digitalmente per il film di Scorsese – ha vinto il suo primo Oscar per aver interpretato il giovane Vito Corleone in Il padrino – Parte II. Succedesse ora magari si sceglierebbe di ringiovanire in digitale Marlon Brando, cioè Corleone da vecchio.