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  • Giovedì 15 giugno 2017

In Italia tutti scrivono di sé

Non è un fenomeno solo italiano, ma i "memoir" e le autobiografie sono sempre di più, come mostra anche il Premio Strega

di Giacomo Papi

(TIMOTHY A. CLARY/AFP/Getty Images)
(TIMOTHY A. CLARY/AFP/Getty Images)

Anche quest’anno come ogni anno da molti anni la maggior parte dei romanzi della cinquina del Premio Strega è molto autobiografica. A parte i romanzi di Nucci e Marasco, che non sono favoriti, quelli di Cognetti, Ciabatti e Rollo raccontano vicende e personaggi per cui è impossibile stabilire il confine tra ciò che è inventato e ciò che è stato effettivamente vissuto.

L’autobiografia è preponderante anche nella lista dei vincitori degli ultimi anni.

I libri di Nesi, Piccolo e Albinati sono apertamente memoir o autobiografie letterarie. Altri due vincitori – Pennacchi e Piperno – mettono comunque in scena, ma prendendola più alla lontana, l’ambiente, le origini e la storia familiare dei loro autori. Degli ultimi sei vincitori soltanto Lagioia e Walter Siti hanno vinto con storie completamente o prevalentemente inventate. Tutti però, compresi Lagioia e Siti, Pennacchi e Piperno, hanno ottenuto cittadinanza nella letteratura italiana –cioè sono diventati possibili vincitori del Premio Strega – grazie a romanzi autobiografici (Piperno con Con le peggiori intenzioni, Lagioia con Riportando tutto a casa, Pennacchi con Il Fasciocomunista, Siti con Scuola di nudo). Anche prendendo il Premio Strega per quello che è e allargando lo sguardo agli ultimi anni la preponderanza dell’autobiografia è schiacciante: da Gomorra di Saviano a Fai bei sogni di Gramellini fino a Gli sdraiati di Michele Serra, dal primo libro di Daria Bignardi all’ultimo di Michela Murgia o di Simona Vinci, non esiste quasi romanzo italiano di successo in cui l’autore non parli diffusamente e apertamente (ma a volte ambiguamente) di sé.

L’autobiografismo non è un fenomeno soltanto italiano – il termine auto-fiction fu inventato già nel 1977 in Francia da Serge Doubrovsky –, ma in Italia è più evidente che altrove: la letteratura e l’autobiografia tendono a coincidere sempre di più, fino quasi a sovrapporsi, espellendo nel genere la letteratura di invenzione, che continua a essere quella che mediamente vende meglio, ma è considerata letteratura minore. Non è neppure un fenomeno nuovo. L’autobiografia è alle origini del romanzo tanto quanto la fantasia: la letteratura moderna nasce dall’invenzione e dalla leggenda, dai grandi poemi come l’Odissea e l’Orlando furioso, quanto dalle confessioni, di Sant’Agostino, Petrarca, Montaigne, Casanova, ed è da almeno cent’anni, almeno a partire da Proust e Joyce e dai loro infiniti epigoni, che l’Io è diventato il personaggio principale della letteratura. Raccontare in prima persona è una tecnica antica che ricorre nel Satyricon, in Tristram Shandy, in Moll Flanders o nel Giovane Holden, perché aiuta a sospendere l’incredulità del lettore suggerendogli che quanto viene raccontato sia accaduto davvero. Quello che è nuovo è che oggi in Italia non dà credibilità solo al racconto, ma anche a chi lo scrive; gli scrittori per essere ritenuti davvero tali oggi devono diventare i personaggi dei loro libri, generando una confusione tra valore letterario e fama dell’autore, cioè tra opera e vita. Il giudizio sembra slittare dal libro sull’autore, il cui grado di interesse per il lettore si misura, anche e soprattutto, nella sua capacità di presentarsi al pubblico come personaggio.

Non vuol dire che il romanzo autobiografico sia una forma minore. Il valore letterario dei singoli libri non è in discussione: tra le memorie di Annie Ernaux e Io, Ibra la distanza è ovviamente siderale. Accade però che anche nella figura dello scrittore si cancelli la distinzione tra pubblico e privato, nella convinzione che a essere interessante sia la vita dell’autore, non la sua capacità di inventarne un’altra più bella. L’erosione del pudore e la spinta a condividere ogni anfratto del privato sono in linea con i tempi, riguardano tutti, sono il motore di Facebook e, prima, del Grande fratello. Il rischio – al di là dei giudizi di valore sui libri singoli che, ripeto, non è qui in discussione – è che la letteratura si trasformi in una branca del gossip e cerchi di attirare il lettore puntando sulle stesse ragioni per cui interessa l’autobiografia di un calciatore: conoscere meglio il protagonista, condividere con lui qualche segreto e, comunque, sentirsi più vicino a qualcuno che è famoso.

Tempo fa ho immaginato una rivolta dei personaggi di fantasia – il Barone rampante, Sandokan, Pinocchio, Mattia Psscal, Renzo e Lucia – stufi di essere messi in ombra dagli scrittori. È un fatto che gli unici personaggi memorabili della letteratura italiana degli ultimi decenni siano poliziotti – Montalbano, Rocco Schiavone, Ricciardi, Guerreri – oppure personaggi di libri per ragazzi – Prisca di Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno o Nihal di Licia Troisi. La loro appartenenza a libri cosiddetti di genere è il segno che il dilagare dell’autobiografia letteraria è anche determinato dalla prassi dell’editoria di comprimere in generi letterari ben definiti, anche graficamente, tutti i libri di invenzione, relegandoli implicitamente alla categoria del consumo, come se la letteratura autobiografica avesse ragioni più alte o diverse. L’unico tipo di romanzo che non viene marchiato da etichette editoriali oggi è il memoir autobiografico, proprio perché il racconto letterario autobiografico ormai viene a coincidere con lo spazio, un tempo molto più ampio, della letteratura. Il rischio complementare – oltre a una certa ipertrofia degli ego – è che la letteratura abbandoni, per moda e convenienza, l’ambizione di inventare altri mondi, in un momento in cui invece – come dimostrano i serial – il bisogno di storie inventate è fortissimo.