In Italia tutti scrivono di sé
Non è un fenomeno solo italiano, ma i "memoir" e le autobiografie sono sempre di più, come mostra anche il Premio Strega
di Giacomo Papi
Anche quest’anno come ogni anno da molti anni la maggior parte dei romanzi della cinquina del Premio Strega è molto autobiografica. A parte i romanzi di Nucci e Marasco, che non sono favoriti, quelli di Cognetti, Ciabatti e Rollo raccontano vicende e personaggi per cui è impossibile stabilire il confine tra ciò che è inventato e ciò che è stato effettivamente vissuto.
- Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi, 281 voti
- Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, 177 voti
- Wanda Marasco, La compagnia delle anime finte, Neri Pozza, 175 voti
- Alberto Rollo, Un’educazione milanese, Manni, 160 voti
- Matteo Nucci, È giusto obbedire alla notte, Ponte alle Grazie, con 158 voti
L’autobiografia è preponderante anche nella lista dei vincitori degli ultimi anni.
- 2010 Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori
- 2011 Edoardo Nesi, Storia della mia gente, Bompiani
- 2012 Alessandro Piperno, Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi, Mondadori
- 2013 Walter Siti. Resistere non serve a niente, Rizzoli
- 2014 Francesco Piccolo. Il desiderio di essere come tutti, Einaudi
- 2015 Nicola Lagioia, La ferocia, Einaudi
- 2016 Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli
I libri di Nesi, Piccolo e Albinati sono apertamente memoir o autobiografie letterarie. Altri due vincitori – Pennacchi e Piperno – mettono comunque in scena, ma prendendola più alla lontana, l’ambiente, le origini e la storia familiare dei loro autori. Degli ultimi sei vincitori soltanto Lagioia e Walter Siti hanno vinto con storie completamente o prevalentemente inventate. Tutti però, compresi Lagioia e Siti, Pennacchi e Piperno, hanno ottenuto cittadinanza nella letteratura italiana –cioè sono diventati possibili vincitori del Premio Strega – grazie a romanzi autobiografici (Piperno con Con le peggiori intenzioni, Lagioia con Riportando tutto a casa, Pennacchi con Il Fasciocomunista, Siti con Scuola di nudo). Anche prendendo il Premio Strega per quello che è e allargando lo sguardo agli ultimi anni la preponderanza dell’autobiografia è schiacciante: da Gomorra di Saviano a Fai bei sogni di Gramellini fino a Gli sdraiati di Michele Serra, dal primo libro di Daria Bignardi all’ultimo di Michela Murgia o di Simona Vinci, non esiste quasi romanzo italiano di successo in cui l’autore non parli diffusamente e apertamente (ma a volte ambiguamente) di sé.
L’autobiografismo non è un fenomeno soltanto italiano – il termine auto-fiction fu inventato già nel 1977 in Francia da Serge Doubrovsky –, ma in Italia è più evidente che altrove: la letteratura e l’autobiografia tendono a coincidere sempre di più, fino quasi a sovrapporsi, espellendo nel genere la letteratura di invenzione, che continua a essere quella che mediamente vende meglio, ma è considerata letteratura minore. Non è neppure un fenomeno nuovo. L’autobiografia è alle origini del romanzo tanto quanto la fantasia: la letteratura moderna nasce dall’invenzione e dalla leggenda, dai grandi poemi come l’Odissea e l’Orlando furioso, quanto dalle confessioni, di Sant’Agostino, Petrarca, Montaigne, Casanova, ed è da almeno cent’anni, almeno a partire da Proust e Joyce e dai loro infiniti epigoni, che l’Io è diventato il personaggio principale della letteratura. Raccontare in prima persona è una tecnica antica che ricorre nel Satyricon, in Tristram Shandy, in Moll Flanders o nel Giovane Holden, perché aiuta a sospendere l’incredulità del lettore suggerendogli che quanto viene raccontato sia accaduto davvero. Quello che è nuovo è che oggi in Italia non dà credibilità solo al racconto, ma anche a chi lo scrive; gli scrittori per essere ritenuti davvero tali oggi devono diventare i personaggi dei loro libri, generando una confusione tra valore letterario e fama dell’autore, cioè tra opera e vita. Il giudizio sembra slittare dal libro sull’autore, il cui grado di interesse per il lettore si misura, anche e soprattutto, nella sua capacità di presentarsi al pubblico come personaggio.
Non vuol dire che il romanzo autobiografico sia una forma minore. Il valore letterario dei singoli libri non è in discussione: tra le memorie di Annie Ernaux e Io, Ibra la distanza è ovviamente siderale. Accade però che anche nella figura dello scrittore si cancelli la distinzione tra pubblico e privato, nella convinzione che a essere interessante sia la vita dell’autore, non la sua capacità di inventarne un’altra più bella. L’erosione del pudore e la spinta a condividere ogni anfratto del privato sono in linea con i tempi, riguardano tutti, sono il motore di Facebook e, prima, del Grande fratello. Il rischio – al di là dei giudizi di valore sui libri singoli che, ripeto, non è qui in discussione – è che la letteratura si trasformi in una branca del gossip e cerchi di attirare il lettore puntando sulle stesse ragioni per cui interessa l’autobiografia di un calciatore: conoscere meglio il protagonista, condividere con lui qualche segreto e, comunque, sentirsi più vicino a qualcuno che è famoso.
Tempo fa ho immaginato una rivolta dei personaggi di fantasia – il Barone rampante, Sandokan, Pinocchio, Mattia Psscal, Renzo e Lucia – stufi di essere messi in ombra dagli scrittori. È un fatto che gli unici personaggi memorabili della letteratura italiana degli ultimi decenni siano poliziotti – Montalbano, Rocco Schiavone, Ricciardi, Guerreri – oppure personaggi di libri per ragazzi – Prisca di Ascolta il mio cuore di Bianca Pitzorno o Nihal di Licia Troisi. La loro appartenenza a libri cosiddetti di genere è il segno che il dilagare dell’autobiografia letteraria è anche determinato dalla prassi dell’editoria di comprimere in generi letterari ben definiti, anche graficamente, tutti i libri di invenzione, relegandoli implicitamente alla categoria del consumo, come se la letteratura autobiografica avesse ragioni più alte o diverse. L’unico tipo di romanzo che non viene marchiato da etichette editoriali oggi è il memoir autobiografico, proprio perché il racconto letterario autobiografico ormai viene a coincidere con lo spazio, un tempo molto più ampio, della letteratura. Il rischio complementare – oltre a una certa ipertrofia degli ego – è che la letteratura abbandoni, per moda e convenienza, l’ambizione di inventare altri mondi, in un momento in cui invece – come dimostrano i serial – il bisogno di storie inventate è fortissimo.