Arundhati Roy è tornata
Un estratto di "Il ministero della suprema felicità", il suo secondo romanzo uscito a vent'anni da "Il dio delle piccole cose" e dedicato "agli inconsolabili"
Il 5 giugno è uscito il secondo romanzo della scrittrice indiana Arundhati Roy, autrice del bestseller Il dio delle piccole cose. Sono passati vent’anni dall’uscita del suo primo e unico romanzo, che oltre a essere stato un successo commerciale piacque molto anche ai critici e le fece vincere il Booker Prize del 1997: anche se in questo periodo sono stati pubblicati molti suoi saggi, si cominciava a pensare che Roy fosse una di quegli scrittori da un unico romanzo. Il nuovo romanzo si intitola Il ministero della suprema felicità e in Italia è stato pubblicato da Guanda. È lungo 486 pagine ed è stato tradotto da Federica Oddera. La maggior parte delle recensioni uscite all’estero sono positive.
Pubblichiamo un estratto di Il ministero della suprema felicità, preso dall’inizio del terzo capitolo: viene citata una bambina abbandonata tra i rifiuti – uno dei personaggi importanti del romanzo – ma si parla soprattutto dell’India prima dell’elezione del primo ministro Narendra Modi. Modi non viene mai nominato, ma è a lui che Roy si riferisce quando parla del «Gujarat ka Lalla», il “prediletto del Gujarat”, utilizzando l’espressione usata dai suoi sostenitori: prima del suo attuale incarico, Modi è stato tre volte primo ministro dello stato indiano del Gujarat, che si trova nel nord-ovest del paese. Roy è molto critica con Modi e uno dei protagonisti del romanzo, l’hijra musulmana Anjum, ha subito le violenze degli scontri del Gujarat del 2002, in cui la minoranza musulmana fu attaccata da una parte della maggioranza indù. Negli scontri furono uccisi 790 musulmani, 254 indù, centinaia di persone furono ferite e centinaia di moschee e templi vennero distrutti. Modi non si scusò mai per quanto avvenuto e non prese alcuna posizione ufficiale di condanna; è ritenuto da molti il principale responsabile del dilagare delle violenze tra indù e musulmani.
La prossima settimana Arundhati Roy sarà in giro per l’Italia a presentare Il ministero della suprema felicità. Il 12 giugno sarà a Roma: la presentazione si terrà alle 19 all’Auditorium Parco della Musica. Il 13 giugno invece Roy sarà a Bologna e presenterà il suo romanzo alla Biblioteca dell’Archiginnasio alle 17.30. Infine il 14 giugno ci sarà la presentazione al Teatro Franco Parenti di Milano, alle 19.
***
Lei comparve all’improvviso, poco dopo la mezzanotte. Non ci furono canti di angeli, né doni portati da saggi. Ma un milione di stelle sorsero a oriente ad annunciare il suo arrivo. Un attimo prima non c’era, e l’attimo successivo… eccola lì sul marciapiede di cemento, in una culla di rifiuti: argentee carte di sigarette, qualche sacchetto di plastica e pacchetti di patatine Uncle Chipps vuoti. Giaceva in una pozza di luce, sotto una colonna di zanzare vorticanti illuminate dal neon, nuda. Aveva la pelle nero-azzurra, liscia come il mantello di un cucciolo di foca. Era del tutto sveglia, ma perfettamente silenziosa e tranquilla, cosa insolita per una creatura tanto piccola. Forse già in quei primi, brevi mesi di vita, aveva imparato che le lacrime, le sue lacrime quanto meno, erano inutili.
La vegliavano un esile cavallo bianco legato alla ringhiera, un cagnolino rognoso, una lucertola color calcestruzzo, due scoiattoli indiani striati che avrebbero dovuto dormire e, dal suo trespolo nascosto, un ragno femmina con la sacca delle uova rigonfia. Per il resto, la piccola sembrava totalmente sola.
Intorno a lei la città si allargava per chilometri. Strega millenaria, appisolata ma non addormentata, nemmeno a quell’ora. Grigi cavalcavia serpeggiavano fuori dal suo cranio di Medusa, aggrovigliandosi e sgrovigliandosi sotto l’alone giallo delle luci al sodio. Lungo i loro marciapiedi alti e stretti si allineavano i corpi addormentati dei senzatetto, testa piedi, testa piedi, testa piedi, a ripetizione, in lontananza. Antichi segreti si annidavano tra i solchi della sua flaccida pelle incartapecorita. Ogni ruga era una strada, ogni strada un luna park. Ogni giuntura artritica un anfiteatro fatiscente dove si recitavano da secoli storie d’amore e di follia, di balordaggine, gioia e crudeltà inenarrabile. Ma quella sarebbe stata l’alba della sua resurrezione. I suoi nuovi padroni volevano nascondere sotto calze a rete importate le bitorzolute vene varicose che le tramavano le gambe, volevano cacciarle i seni avvizziti in un provocante reggipetto imbottito e ficcarle i piedi doloranti in un paio di scarpe a punta con i tacchi a spillo. Volevano che dimenasse i vecchi fianchi irrigiditi e che incurvasse all’insù gli angoli della bocca contorta da una smorfia per simulare un vuoto sorriso paralizzato. Era l’estate in cui la Nonna divenne una puttana.
Doveva trasformarsi nella supercapitale della nuova superpotenza più amata nel mondo. India! India! La salmodia si levava ovunque: dagli schermi televisivi, dai video musicali, dalle pagine di riviste e giornali stranieri, dai convegni d’affari e dalle fiere di armamenti, dai meeting degli esperti di economia e dai summit degli ambientalisti, dalle fiere del libro e dai concorsi di bellezza. India! India! India!
Da un capo all’altro della città, enormi cartelloni pubblicitari sponsorizzati in compartecipazione da un quotidiano inglese e dall’ultima crema per sbiancare la pelle (venduta a tonnellate) recitavano: IL NOSTRO MOMENTO È ADESSO. Stava arrivando Kmart, stavano arrivando WalMart e Starbucks, e negli spot della British Airways trasmessi alla tv, i Popoli del Mondo (bianchi, bruni, neri gialli) intonavano in coro il Mantra Gayatri:
Om bhur bhuvah svaha
Tat savitur varenyam
Bhargo devasya dhimahi
Dhiyo yo nah pracodayat
Oh Dio, tu che ci dai la vita,
Ci liberi da dolori e sofferenze
E ci dispensi la felicità,
Oh creatore dell’universo,
Concedici la tua suprema luce che distrugge il peccato
E guida le nostre menti nella giusta direzione.
(E fa’ che tutti volino British Airways.)
Una volta finito di cantare, i Popoli del Mondo s’inchinavano profondamente e univano i palmi nel saluto tradizionale. Namaste, dicevano nei loro accenti esotici, e sorridevano come i portieri inturbantati coi baffoni da maharaja che accolgono gli ospiti stranieri negli alberghi a cinque stelle. E con questo, per lo meno nella pubblicità, si assisteva al ribaltamento della storia. (Chi s’inchinava adesso? E chi sorrideva? Chi era il supplicante? E chi il supplicato?) I cittadini privilegiati dell’India sorridevano di rimando nel sonno. India! India! salmodiavano in sogno, come la folla dei tifosi alle partite di cricket. Il mazziere segnava il ritmo… India! India! Il mondo scattava in piedi, ruggendo la sua approvazione. Dove un tempo c’erano foreste, ora sorgevano grattacieli e fabbriche d’acciaio, i fiumi venivano imbottigliati e venduti al supermercato, il pesce veniva inscatolato, le montagne crivellate dalle miniere e tramutate in missili scintillanti. Dighe gigantesche illuminavano le città come alberi di Natale. Tutti erano felici.
Lontano dalle luci e dalle pubblicità, si evacuavano villaggi e città. A milioni di persone era imposto di trasferirsi, ma nessuno sapeva dove.
«Chi non può permettersi di vivere in una metropoli non dovrebbe venirci» decretò un giudice della Corte Suprema, e ordinò l’immediata espulsione dei poveri. «Parigi era un luogo disgustoso prima del 1870, quando furono eliminati i bassifondi» disse il vicegovernatore della città, sistemandosi sul cranio, da destra a sinistra, l’ultimo ciuffo di capelli rimastogli. (Alla sera, mentre nuotava nella piscina del club Chelmsford, il ciuffo gli nuotava accanto nell’acqua clorata.) «E guardate cos’è diventata Parigi oggi.»
E così le persone in eccesso furono bandite.
Oltre alle pattuglie di polizia, nelle zone più povere vennero schierati numerosi battaglioni della Rapid Action Force, con le loro strane uniformi mimetiche azzurro cielo (forse scelte per confondere gli uccelli).
Nelle baraccopoli e nei quartieri abusivi, nelle aree di nuova assegnazione e in quelle di residenza «non autorizzata», gli abitanti lottarono. Scavarono fossati attraverso le strade che conducevano alle loro case e bloccarono l’accesso con pietre e rottami. Vecchi, giovani, bambini, madri e nonne, armati di sassi e bastoni, presidiarono le vie di ingresso ai loro insediamenti. Da un lato all’altro di una strada, nel punto in cui si erano allineati poliziotti e bulldozer per sferrare l’assalto finale, uno slogan scarabocchiato col gesso recitava: Sarkar ki Maa ki Choot. La topa della madre del governo.
«Dove andremo?» chiedevano le persone in eccesso. «Non ci muoveremo di qui, a costo di farci ammazzare» dicevano.
Erano troppe per poterle uccidere così, alla luce del sole.
Furono invece usati bulldozer gialli importati dall’Australia per schiacciare le loro case, le porte e le finestre, i tetti di fortuna, le pentole e le padelle, le stoviglie, i cucchiai, i diplomi scolastici, le carte annonarie, i certificati di matrimonio, le scuole frequentate dai bambini, il lavoro di un’intera vita, le espressioni negli occhi della gente. (Quei bulldozer si chiamavano Ditch-Witch, streghe scavatrici.) Erano macchinari all’avanguardia, in grado di schiacciare la storia e accatastarne i pezzi come se fossero materiale da costruzione.
In questo modo, nell’estate della sua rinascita, la Nonna rischiò il tracollo.
Si scatenò una feroce concorrenza tra i canali televisivi per trasmettere le notizie sulla città che viveva le sue ultime ore. Nessuno sottolineò l’ironia della situazione. Le varie emittenti sguinzagliavano giovani reporter alle prime armi, ma di bellissimo aspetto, che si diffondevano per la metropoli come un’eruzione cutanea, facendo domande incalzanti e senza senso; chiedevano ai poveri cosa si prova a essere poveri, agli affamati cosa si prova a patire la fame e ai senzatetto cosa si prova a non avere una casa. «Bhai Sahib, yeh bataaiye, aap ko kaisa lag raha hai…?» Dimmi, fratello, come ci si sente a…? I canali televisivi non si ritrovavano mai a corto di sponsor per le loro dirette sulla disperazione. E non si ritrovavano mai a corto di disperazione.
Dietro adeguato compenso, gli esperti dispensavano ai tele- spettatori le loro esperte opinioni: Qualcuno deve pur pagare il prezzo del Progresso, dicevano, con la voce dell’esperienza.
Fu vietato mendicare. Migliaia di accattoni furono radunati e rinchiusi prima di essere spediti fuori città a scaglioni. I loro sfruttatori dovettero sborsare un bel po’ di quattrini per farli tornare al lavoro.
Padre John dell’associazione For the Weak inviò una lettera in cui affermava che, secondo i dati della polizia, nel corso dell’anno precedente erano stati trovati quasi tremila cadaveri non identificati (di esseri umani) per le strade della capitale. Nessuno gli rispose.
Ma i negozi di alimentari traboccavano di cibo. Le librerie traboccavano di libri. Le calzolerie traboccavano di scarpe. E le persone (quelle davvero considerate tali) tra loro commentavano: «Non c’è più bisogno di andare all’estero per fare acquisti. Adesso i prodotti importati sono disponibili anche qui da noi. Bombay è la nostra New York, Delhi è come Washington e il Kashmir è la Svizzera. È proprio saala fantastic, dannatamente fantastico, yaar».
Le strade erano intasate di traffico dalla mattina alla sera. I neosfrattati, che vivevano nelle crepe e negli anfratti della città, sbucavano fuori e brulicavano intorno alle lucide automobili con l’aria condizionata, cercando di vendere stracci per la polvere, caricatori per cellulari, modellini di jet, riviste di economia, libri di management piratati (Come guadagnare il primo milione, Cosa vuole in realtà la nuova India), guide per buongustai, periodici di interior design con foto a colori di residenze di campagna provenzali e prontuari per una rapida soluzione dei problemi esistenziali (La nostra felicita` dipende da noi… o Come diventare il migliore amico di te stesso…). Nel giorno dell’Indipendenza proponevano mitragliatrici giocattolo e bandiere nazionali in miniatura montate su basi che recitavano Mera Bharat Mahan, La mia India è grande. I passeggeri guardavano fuori dai finestrini delle loro macchine e vedevano solo l’appartamento nuovo che progettavano di comprarsi, la Jacuzzi che avevano appena fatto installare e l’inchiostro ancora fresco sull’accordo sottobanco appena concluso. Erano calmi grazie ai corsi di meditazione, sereni grazie alla pratica dello yoga.
Nelle periferie industriali della metropoli, nei chilometri e chilometri di luminose paludi solidamente compattate con rifiuti e sacchetti di plastica multicolore, là dove erano stati «reinsediati» gli sfrattati, l’aria sapeva di prodotti chimici e l’acqua era avvelenata. Nugoli di zanzare si libravano da densi stagni verdi. Madri in eccesso se ne stavano appollaiate come passeri sui resti di ciò che un tempo era una casa e cantavano per addormentare i loro bambini in eccesso.
Sooti rahu baua, bhakol abaiya
Naani gaam se angaa, siyait abaiya
Maama sange maami, nachait abaiya
Kara sange chara, labait abaiya
Dormi, tesoro, dormi, prima che venga il diavolo
Dal villaggio della mamma verrà la tua camicia nuova
Verranno lo zio e la zia a passo di danza
Verranno a portarti cavigliere e braccialetti
I bambini in eccesso dormivano, sognando bulldozer gialli. Sopra lo smog e il ronzio meccanico della città, la notte era immensa e bellissima. Il cielo sembrava una foresta di stelle. I jet sfrecciavano come lente comete sibilanti. Alcuni stazionavano uno sopra l’altro a dieci per volta sull’Aeroporto Internazionale Indira Gandhi, offuscato dall’inquinamento, in attesa di atterrare.
***
Molto più in basso, sul marciapiede ai bordi del Jantar Mantar, l’antico osservatorio astronomico dove la nostra bambina aveva fatto la sua comparsa, c’era parecchia animazione persino a quell’ora del mattino. Comunisti, sediziosi, secessionisti, rivoluzionari, sognatori, oziosi, drogati, balordi, freelance di ogni tipo e saggi che non potevano permettersi regali per neonati si aggiravano nei paraggi. Negli ultimi dieci giorni erano stati tutti esclusi e allontanati da quello che una volta era il loro territorio – l’unico posto della città dov’erano autorizzati a riunirsi – da un nuova, sensazionale attrazione. Più di venti troupe televisive, con le telecamere montate su speciali gru gialle, sorvegliavano giorno e notte la luminosa star del momento: un seguace di Gandhi, un ex militare vecchio e grassoccio reinventatosi assistente sociale nei villaggi, che ave- va proclamato uno sciopero della fame a oltranza per realizzare il sogno di un’India libera dalla corruzione. Giaceva pinguemente sul dorso con l’aria sofferta di un santo, davanti al ritratto della Madre India, dea dalle molte braccia e dal corpo a forma di carta geografica della nazione. (La nazione indivisa del British Raj, naturalmente, che comprendeva Pakistan e Bangladesh.) Ogni suo sospiro, ogni sua richiesta sussurrata a quanti lo circondavano veniva trasmessa in diretta per tutta la notte.
Il vecchio aveva colto nel segno. L’estate della resurrezione della città era stata anche un’estate di truffe – truffe del car- bone, delle miniere di ferro, dell’edilizia, delle assicurazioni; truffe della carta bollata, delle licenze telefoniche; truffe dei terreni edificabili, delle dighe, dell’irrigazione; truffe delle armi e delle munizioni, dei distributori di benzina, dei vaccini antipolio, delle bollette elettriche; truffe dei libri di scuola, dei santoni, degli aiuti alle zone colpite dalla siccità; truffe delle targhe, delle liste elettorali, delle carte d’identità – grazie alle quali politici, uomini d’affari, politici entrati in affari e uomini d’affari entrati in politica si erano intascati quantità inimmaginabili di denaro pubblico.
Da bravo cercatore d’oro, il vecchio aveva messo le mani su una vena ricchissima, un immenso serbatoio di rabbia popolare, e con sua stessa sorpresa era diventato da un giorno all’altro una figura carismatica. Il suo sogno di una società libera dalla corruzione era come un lieto pascolo in cui chiunque, compresi i più corrotti, potevano brucare per un po’. Persone che di norma non avrebbero avuto nulla a che vedere l’una con l’altra (di sinistra, di destra, prive di orientamento politico) accorrevano tutte da lui. La sua improvvisa comparsa, quasi dal nulla, offriva un modello e uno scopo a una nuova generazione di ragazzotti pieni di impazienza, rimasti fino ad allora digiuni di politica e di storia. Arrivavano in jeans e maglietta, armati di chitarre e di canzoni contro la corruzione composte da loro. Portavano striscioni e cartelli con slogan del tipo ADESSO BASTA! e FERMIAMO SUBITO LA CORRUZIONE! Una squadra di giovani professionisti – avvocati, contabili e programmatori di computer – costituì un comitato per gestire l’evento. Raccolsero denaro, installarono l’enorme tendone, si procurarono gli attrezzi di scena (il ritratto della Madre India, un’abbondante scorta di bandiere nazionali, berretti alla Gandhi, striscioni) e pianificarono una campagna mediatica sfruttando i mezzi dell’era digitale. La rozza retorica e gli aforismi terra terra del vecchio furoreggiarono su Twitter e inondarono Facebook. Le telecamere non si saziavano mai di riprenderlo. Burocrati in pensione, poliziotti e ufficiali dell’esercito in congedo si unirono al gruppo. La folla aumentò.
L’istantanea celebrità elettrizzò il vecchio, rendendolo esuberante e un po’ aggressivo. Cominciò a pensare che attenersi al solo tema della corruzione gli tarpasse le ali e limitasse la sua attrattiva. Il minimo che potesse fare, pensò, era condividere con i seguaci una parte della sua essenza, del suo vero io e della sua innata saggezza bucolica. E così il carrozzone si mise in moto. Il vecchio annunciò che si apprestava a condurre la Seconda Lotta per la Liberazione dell’India. Pronunciò discorsi entusiasmanti con la sua vocetta resa infantile dall’età, una vocetta che, malgrado avesse lo stesso suono di due palloncini sfregati l’uno contro l’altro, sembrava capace di toccare il cuore della nazione. Come un prestigiatore alla festa di compleanno di un bambino, si esibiva in trucchi da illusionista e faceva apparire magicamente dal nulla una serie di regali. Aveva qualcosa per tutti. Galvanizzò gli sciovinisti indù (già esaltati dalla mappa della Madre India) ricorrendo al loro antico e controverso grido di guerra, Vande Mataram!, Salutiamo la madrepatria! Alcuni musulmani si irritarono, e allora il comitato organizzativo orchestrò la visita da Bombay di un divo del cinema di religione islamica, il quale rimase seduto sul palco accanto al vecchio per più di un’ora con in testa il berretto da preghiera (che non portava mai) per sottolineare il messaggio dell’Unità nella Diversità. Per ingraziarsi i tradizionalisti, il vecchio cito` Gandhi. Disse che il sistema delle caste era la salvezza dell’India. « I membri di ciascuna casta devono svolgere i compiti che sono loro assegnati per nascita, ma tutti quei compiti sono degni di rispetto. » I Dalit reagirono con un’esplosione di rabbia, e allora accanto al vecchio fu piazzata la figlioletta di uno spazzino municipale, con un abitino nuovo e con una bottiglia d’acqua da cui lui beveva un sorso ogni tanto. Il suo slogan per i moralisti militanti recitava: Tagliamo le mani ai ladri! Impicchiamo i terroristi! Per i nazionalisti di tutte le risme sbraitava: «Doodh maangogey to kheer dengey! Kashmir maangogey to chiir dengey!» Chiedeteci latte e vi daremo panna! Chiedeteci il Kashmir e vi faremo a pezzi!
Nelle interviste sorrideva con il suo sorriso sdentato da pubblicità di pappe per neonati, descriveva le gioie di una vita semplice e casta trascorsa in una cameretta attigua al tempio del villaggio e spiegava come la pratica del rati sadhana – la ritenzione del seme – l’avesse aiutato a conservare le forze durante il digiuno. Per dimostrarlo, tre giorni dopo aver smesso di mangiare si alzò dal letto, corse intorno al palco in kurta e dothi bianchi e flette` i flaccidi bicipiti. La gente rise e pianse e gli portò i bambini perché li benedicesse.
L’audience televisiva salì alle stelle. Le richieste di inserzioni pubblicitarie arrivarono a valanghe. Non si era mai visto un simile entusiasmo, per lo meno non dal giorno del Miracolo Simultaneo di vent’anni prima, quando era stato annunciato che in tutti i templi del mondo le statue del dio Ganesh ave- vano cominciato contemporaneamente a bere latte.
Ma ormai era il nono giorno di digiuno e, malgrado le riserve di seme non versato, il vecchio appariva visibilmente indebolito. Quel pomeriggio in città giravano voci di creatinina in aumento e sofferenza renale. Pezzi grossi e luminari si misero in coda al suo capezzale per farsi fotografare mentre gli tenevano la mano e (sebbene nessuno pensasse sul serio che si sarebbe arrivati a quello) lo esortarono a non morire. Gli industriali coinvolti negli scandali donarono denaro al Movimento e plaudirono al fermo impegno del vecchio per la non violenza. (Le sue ricette a base di mani tagliate, impiccagioni e sbudellamenti venivano considerate ragionevoli deterrenti.)
Tra i suoi seguaci, quelli relativamente benestanti, che godevano del privilegio di una vita libera dall’assillo dei bisogni materiali ma non avevano mai sperimentato la scarica di adrenalina e la legittima rabbia innescate dalla partecipazione a una protesta di massa, arrivarono a bordo di automobili e motociclette, sventolando bandiere nazionali e cantando inni patriottici. Il governo del Coniglio in Trappola, ex messia del miracolo economico indiano, era ridotto alla paralisi.
Nel lontano Gujarat, il Gujarat ka Lalla vide nella comparsa del vecchio-lattante un segno divino. Con infallibile istinto predatorio, accelerò la propria Marcia su Delhi. Al quinto giorno del digiuno si trovava (metaforicamente parlando) accampato alle porte della città. Spedì il proprio esercito di bellicosi giannizzeri a espugnare il Jantar Mantar. I suoi emissari sopraffecero il vecchio con le loro fragorose dichiarazioni di sostegno. Avevano bandiere più grandi e intonavano canti più stentorei di chiunque altro. Organizzarono banchi per distribuire pasti gratuiti ai poveri. (Erano ben forniti di denaro elargito dai santoni milionari che sostenevano il Gujarat ka Lalla.) Avevano ricevuto l’ordine tassativo di non portare le caratteristiche bandane color zafferano, non esibire bandiere color zafferano e non citare neppure di sfuggita il nome del Prediletto del Gujarat. Funzionò. Nel giro di pochi giorni fecero scattare una congiura di palazzo. I giovani professionisti che si erano tanto impegnati per alimentare la fama del vecchio vennero deposti prima che qualcuno di loro, e persino lui, avesse capito cosa stava accadendo. Il Lieto Pascolo crollò. E nessuno se ne rese conto. Il Coniglio in Trappola era spacciato. Ben presto il Prediletto sarebbe entrato trionfalmente a Delhi. I suoi fedelissimi, il volto coperto da maschere di carta con le sue fattezze, l’avrebbero portato a spalla salmodiando il suo nome – Lalla! Lalla! Lalla! – e l’avrebbero piazzato sul trono. Ovunque avesse guardato, avrebbe visto solo se stesso. Il nuovo Imperatore dell’Hindustan. Sarebbe divenuto un oceano. Un’immensità. L’umanità stessa. Ma tutto ciò sarebbe avvenuto solo di lì a un anno.
Per il momento, al Jantar Mantar, i suoi sostenitori si sgolavano a forza di sbraitare contro la corruzione del governo. (Murdabad! Murdabad! Abbasso! Abbasso! Abbasso! Abbasso!) Alla sera si precipitavano a casa a guardarsi in tv. Finché non si ripresentavano il mattino dopo, il vecchio e il suo gruppetto di irriducibili sostenitori avevano un’aria un po’ derelitta sotto il bianco tendone svolazzante, grande abbastanza per ospitare una folla di migliaia di persone.
@2017 by Arundhati Roy
@2017 Ugo Guanda Editore S.r.l
Traduzione di Federica Oddera