Perché le persone “segnalate alle autorità per terrorismo” non vengono controllate?
È una domanda che si fanno in molti dopo un attentato: la risposta è che sono troppe
È successo diverse volte negli ultimi due anni che dopo un attentato terroristico in Europa si dicesse che “l’attentatore era noto alle autorità”, che era stato segnalato per qualcosa che aveva fatto e che era stato ritenuto potenzialmente pericoloso. È successo anche ieri, dopo la diffusione del nome del terzo attentatore di Londra, l’italo marocchino Youssef Zaghba. Zaghba era stato segnalato dall’intelligence italiana come “soggetto a rischio”: nel marzo 2016 era stato fermato all’aeroporto di Bologna con un biglietto di solo andata per la Turchia, probabilmente per unirsi alle forze jihadiste che combattono in Siria. L’intelligence italiana aveva avvisato della situazione di Zaghba anche l’intelligence britannica, che però ieri ha detto di non avere mai avviato un’indagine su di lui. Ora molti si chiedono: perché non si è fatto di più? Perché Zagbha, e altri attentatori prima di lui, non erano stati sottoposti a sorveglianza se erano stati segnalati come soggetti pericolosi?
Sul Foglio di oggi Daniele Raineri ha provato a dare una risposta, spiegando che il problema principale è che il numero di persone “considerate a rischio” di terrorismo è molto alto: sarebbe impossibile sorvegliarle tutte da vicino. Soltanto nel Regno Unito ci sono circa 23mila persone segnalate per diverse ragioni come “potenzialmente a rischio” di estremizzazione e terrorismo: di queste, solo 3mila ricevono un’attenzione particolare, perché solo su di loro le autorità hanno prove concrete. Anche considerando solo queste 3mila, sarebbe praticamente impossibile sorvegliarle tutte. Stella Rimington, ex capo dei servizi segreti britannici, ha spiegato a BBC che per sorvegliare qualcuno in ogni momento della giornata servono almeno 20 agenti. Per sorvegliarne 3mila servirebbero 60mila agenti, a tempo pieno. Sarebbe un dispiegamento di forze enorme, che porterebbe a dei risultati comunque molto limitati (queste persone vengono comunque sorvegliate più delle altre). In Francia, ha spiegato sempre Raineri, esiste una lista simile di persone “a rischio” che include circa 10mila nomi e che ha limiti simili a quella del Regno Unito: è utile, ma è solo uno degli strumenti che si possono usare per prevenire atti di terrorismo.
Per queste ragioni, la sorveglianza non è sistematica. Se qualcuno segnalato su una lista antiterrorismo cerca di prendere un aereo verso un paese a rischio, per esempio, lo si ferma e lo si interroga, ma in assenza di prove concrete spesso ci si limita a controlli più superficiali. È quello che è successo con Youssef Zaghba, che dopo il fermo del marzo 2016 era stato segnalato anche alle autorità del Regno Unito e del Marocco (paesi dove Zaghba viaggiava spesso).
Non si possono semplicemente arrestare tutti quelli che si trovano sulla lista di “persone a rischio”? In circostanze normali no, perché in una democrazia ci devono essere circostanze particolari per poter fermare o arrestare una persona, e generalmente il fermo o l’arresto devono essere confermati poi da un giudice, altrimenti la persona deve essere rilasciata. Negli ultimi anni, tuttavia, diversi paesi hanno adottato misure antiterrorismo straordinarie. Margaret Gilmore, esperta di anti-terrorismo del Royal United Services Institute, ha spiegato alla BBC che a volte, se ci sono forti sospetti su qualcuno che si trova sulla lista, la polizia procede ad arresti “preventivi”. Nel Regno Unito era successo per esempio prima delle Olimpiadi del 2012, senza che poi le accuse fossero formalizzate. In Italia una misura preventiva spesso applicata è l’espulsione delle persone a rischio, cresciuta di quasi 10 volte negli ultimi anni: l’espulsione è una misura con una sua efficacia, almeno nel breve periodo, ma che comunque non sarebbe applicabile a cittadini italiani come Youssef Zaghba (o ai britannici nel caso del Regno Unito, e così via). Non è nemmeno una misura che risolve il problema nel lungo periodo.