C’è un altro modo per far cadere Trump, oltre all’impeachment
È un meccanismo previsto da un emendamento della Costituzione, ma è persino più complicato
Man mano che gli scandali intorno all’amministrazione di Donald Trump hanno iniziato a gonfiarsi – cioè più o meno dal giorno successivo al suo insediamento – si è parlato molto della possibilità che Trump possa essere rimosso a un certo punto con una procedura di impeachment. Nonostante gli ultimi sviluppi facciano pensare che le dimensioni degli scandali che lo riguardano si stiano avvicinando a quelli del Watergate – il caso che nel 1974 portò alle dimissioni dell’allora presidente Richard Nixon – in molti considerano poco percorribile l’ipotesi di un impeachment; in sostanza perché la procedura dovrebbe essere appoggiata anche da buona parte dei parlamentari Repubblicani, che non sembrano intenzionati a mollare Trump a causa della sua popolarità nel loro elettorato. Nessun presidente americano è mai stato rimosso con l’impeachment.
Negli ultimi giorni si è parlato molto di un altro meccanismo per la sua rimozione, che almeno teoricamente prevede meno passaggi dell‘impeachment ma che sarebbe ancora ugualmente difficile da applicare: ne hanno parlato sia un editoriale pubblicato dal New York Times sia un lungo articolo comparso sul penultimo numero del New Yorker. Il meccanismo in questione è quello previsto dal 25esimo emendamento della Costituzione statunitense.
L’emendamento fu introdotto nel 1967 per rimediare a una lacuna notevole. All’epoca esisteva una procedura chiara nel caso il presidente fosse morto mentre era in carica – lo stesso che succederebbe ora: gli subentra il vicepresidente – mentre non era chiaro cosa sarebbe successo se si fosse ammalato in maniera molto grave, magari perdendo le sue capacità cerebrali. L’ambiguità era causata dalle parole piuttosto vaghe della parte della Costituzione che contiene la procedura di successione dei poteri di un presidente in casi eccezionali: la sesta clausola della prima sezione dell’articolo 2 prevede che i poteri del presidente vadano «trasferiti al vicepresidente» in caso di «morte, dimissioni o incapacità di adempiere ai poteri e i doveri della carica sopracitata». I casi di morte e dimissioni sono i più estremi ma anche i più facili da risolvere: c’è un problema evidente, una soluzione va trovata per forza. Stabilire l’incapacità di un presidente è una questione più sottile: a chi spetta decidere se un presidente è ancora nel pieno delle capacità fisiche e mentali per fare il suo lavoro? E cosa si intende per “incapacità” di una certa persona?
All’epoca i legislatori americani avevano in testa soprattutto due casi: il primo è quello di Woodrow Wilson, presidente dal 1913 al 1921, che un anno e mezzo prima della fine del suo secondo mandato ebbe un infarto e da quel momento in poi fu praticamente sostituito dal suo staff e da sua moglie. Il 22 novembre 1963, quattro anni prima dell’introduzione dell’emendamento, l’allora presidente John Fitzgerald Kennedy fu assassinato durante una parata pubblica a Dallas, in Texas: Kennedy morì mezz’ora dopo essere stato trasportato d’urgenza in ospedale, ma nel caso fosse sopravvissuto e fosse andato in coma, ha fatto notare il New Yorker, «non ci sarebbe stato nessun metodo legale per trasferire i suoi poteri ad altre persone».
La prima parte dell’emendamento chiarisce che nel caso specifico della morte del presidente i suoi poteri vengano trasferiti al vicepresidente, rendendo automatica la successione (i termini usati nell’articolo 2 della Costituzione erano comunque piuttosto generici). La seconda stabilisce cosa fare nel caso la carica del vicepresidente diventi vacante – il presidente ne nomina uno nuovo – mentre la terza regola il temporaneo passaggio dei poteri dal presidente al vicepresidente in casi eccezionali: la prima volta venne invocato il 13 luglio 1985, quando l’allora presidente Ronald Reagan subì un’operazione per rimuovere un cancro al colon. Il vicepresidente in carica George Bush fu presidente pro tempore per tutta la durata dell’operazione, dalle 11.28 alle 19.22. Diversi giornali raccontarono che Bush passò gran parte di quelle ore giocando a tennis: la situazione era sotto controllo ed era utile mandare un segnale di tranquillità al paese e al resto del mondo.
La parte più importante dell’emendamento – e quella che viene citata a proposito della situazione di Trump – è invece la quarta:
Nel caso in cui il vicepresidente e la maggioranza dei funzionari dell’esecutivo […] trasmettano al presidente pro tempore del Senato e al presidente della Camera una dichiarazione scritta in cui spiegano che il presidente non è in grado di adempiere ai poteri e ai doveri della sua carica, il vicepresidente dovrà assumere immediatamente la carica di presidente pro tempore.
Dalla sua introduzione nel 1967, solamente un’amministrazione ha preso in considerazione la possibilità di invocare questa clausola per rimuovere un presidente. Nel 1987, racconta il New Yorker, lo staff della Casa Bianca notò che il 76enne Ronald Reagan aveva iniziato a comportarsi in maniera strana, più dimessa e maldestra del solito. Howard H. Baker, che era diventato il capo del suo gabinetto solo pochi mesi prima, incaricò un funzionario della Casa Bianca, Jim Cannon, di capirci di più. Cannon scoprì che Reagan non aveva più voglia di lavorare e che «tutto quello che voleva fare era stare nella sua residenza a guardare la tv o dei film», come raccontò anni più tardi. Baker propose di valutare le condizioni del presidente in un pranzo con tutto lo staff. In quell’occasione Reagan fu il solito Reagan, e il problema non si pose più. Pochi anni più tardi gli fu diagnosticato il morbo di Alzheimer, cosa che fa pensare che in quelle settimane alla Casa Bianca avesse dimostrato i primissimi sintomi.
Da allora il 25esimo emendamento non è più stato discusso, fino ai primi mesi della presidenza di Trump. Da tempo si discute della possibilità che Trump possa soffrire di qualche disturbo mentale o del comportamento, anche se non esiste nessuna conferma ed è improbabile che ne arriveranno. Il fatto però che nemmeno nel 25esimo emendamento sia stata chiarito cosa si intende per l’incapacità già citata dalla Costituzione ha fatto sì che alcuni abbiano proposto di definire così l’inadeguatezza dimostrata da Trump in questi mesi. È una tesi che ha spiegato bene l’opinionista conservatore Ross Douthat in un editoriale pubblicato dal New York Times il 16 maggio.
Per fare il presidente una persona ha bisogno di alcune qualità: un ragionevole livello di curiosità intellettuale, una buona capacità di concentrazione, una bussola morale funzionante e un certo equilibro e auto-controllo. Se un presidente ha una o più carenze in questi campi, state sicuri che verranno fuori. Trump sembra avere carenze in tutti questi campi. […] Come ha scritto martedì il mio collega David Brooks, l’uomo che occupa la Casa Bianca ha dei tratti fondamentalmente infantili. È il modo più semplice per capire cosa sta succedendo: oggi il presidente ha il potere simile a quello di un re, e noi sul trono abbiamo messo un bambino.
Come hanno scritto in tanti, però, la procedura per rimuovere Trump secondo il 25esimo emendamento ha più o meno le stesse complicazioni dell’impeachment. La dichiarazione di incapacità dev’essere appoggiata sia dal vicepresidente sia dalla maggioranza dei segretari – cioè i “ministri” del governo federale – o in alternativa da una commissione di esperti di medicina nominata dal Congresso. Né il vicepresidente Mike Pence né i segretari – nominati dallo stesso Trump – sembrano anche solo lontanamente intenzionati a mollarlo: da quando è diventato presidente lo hanno sempre difeso, anche a costo di rimediare brutte figure. Inoltre, se anche nel caso Pence e i Segretari decidessero di invocare il 25esimo emendamento, Trump potrebbe obiettare di essere ancora in grado di fare il presidente: a quel punto per rimuoverlo servirebbero i due terzi dei voti sia alla Camera sia al Senato, esattamente come nell’impeachment.
Perché Trump rischi davvero di essere rimosso tramite il 25esimo emendamento, dovrebbe perdere l’appoggio delle persone che lui stesso ha nominato, e che per ragioni politiche, personali o di potere fin qui l’hanno sempre appoggiato. Se anche loro decidessero di mollarlo, la decisione spetterebbe quindi ai deputati e senatori Repubblicani: cosa al momento molto difficile da immaginare, visto che Trump è ancora molto popolare nella base del partito e l’establishment Repubblicano si è ormai rassegnato ad appoggiarlo, anche solo per avere la possibilità di approvare alcune delle proposte storiche del partito.
Come ha scritto Dahlia Lithwick su Slate, tirare in ballo il 25esimo emendamento «omette il fatto che le persone che hanno imparato ad amare Trump sono molto contente di vedere applicati i valori che ha dimostrato in campagna elettorale: il suo essere un outsider, il disprezzo per la compassione, le istituzioni e l’esperienza, l’avversione per la correttezza politica, e le sue soluzioni politiche».