Ha ragione Franceschini o il Tar?
La sentenza che ha annullato la nomina di cinque direttori di grandi musei dice che al concorso non potevano partecipare stranieri, ma il ministero e diversi esperti non sono d'accordo
Da ieri sui giornali si discute molto della sentenza del Tar del Lazio che ha annullato la nomina di cinque dei venti direttori di importanti musei italiani scelti nel 2015 dal ministero dei Beni Culturali, il cui ministro era ed è ancora Dario Franceschini. I direttori in questione erano stati scelti con una procedura di selezione internazionale e sette erano stranieri.
Il problema principale citato dal Tar riguarda proprio la nazionalità straniera delle persone che hanno partecipato al concorso (e che in alcuni casi l’hanno vinto): secondo i giudici la legge italiana non prevede che incarichi così delicati siano assegnati a persone non italiane. La sentenza cita anche altri problemi, legati alle modalità degli esami orali – compiuti al chiuso – e ai criteri con cui sono stati divisi i candidati prima dell’esame orale. Franceschini se l’è presa molto e il ministero ha fatto sapere che farà ricorso al Consiglio di Stato, con l’obiettivo principale di sospendere la sentenza e far tornare al loro posto i cinque direttori. Anche diversi esperti di diritto amministrativo hanno criticato la sentenza, argomentando che il Tar si sia spinto oltre il suo ambito di competenza.
Cosa dice il Tar
La procedura straordinaria per scegliere i direttori dei musei “di rilevante interesse nazionale” è contenuta nel decreto legge 83 del 2014, poi convertito nella legge 106 del luglio 2014. Per i musei e istituti interessati, il governo si impegnava a scegliere «persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della cultura». Nel decreto legge segue poi una deroga al comma 6 dell’articolo 19 del decreto legge 165 del 2001, che prevede diversi parametri per l’assunzione di personale esterno alla pubblica amministrazione per la gestione dei beni cultuali. Il problema, secondo il Tar, è che il decreto del 2014 non ha previsto una deroga per un altro articolo del decreto del 2001, il 38, che limita l’assunzione di personale straniero. Al comma 1 dell’articolo 38, si legge:
I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea (e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente) possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale.
Secondo l’interpretazione del Tar, insomma, dato che il decreto legge del 2014 non ha previsto una deroga esplicita all’articolo 38 del decreto del 2001, le misure che impediscono la nomina di persone straniere per incarichi di “tutela dell’interesse nazionale” restano valide. Qualcuno ha fatto notare che il decreto del 2001 – che aveva come obiettivo quello di razionalizzare e rendere più efficiente la pubblica amministrazione – fu approvato dal secondo governo di Giuliano Amato, il cui sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega alle riforme, era proprio Dario Franceschini.
I critici della sentenza
La principale critica rivolta al Tar è aver agito al di là del proprio ambito. A differenza degli altri tribunali amministrativi regionali, il Tar del Lazio ha giurisdizione sulla pubblica amministrazione nazionale. Secondo alcuni esperti, però, la nomina dei direttori in questione non è di tipo puramente amministrativo, dato che non è avvenuta con un “normale” concorso per assegnare un incarico da dirigente pubblico. I candidati sono stati esaminati da un’apposita commissione composta da docenti universitari, storici dell’arte e dirigenti di importanti musei internazionali: la commissione poi ha fornito al ministero una lista di tre nomi per ciascun museo. Franceschini ha scelto i direttori dei sette più importanti; il direttore generale del ministero, Ugo Soragni, ha scelto gli altri tredici. Di fatto erano nomine dirigenziali che in quanto tali contenevano anche un elemento “fiduciario”, che andava al di là della valutazione della commissione. Lo ha spiegato in maniera efficace l’avvocato esperto di diritto amministrativo Gianluigi Pellegrino, contattato da Repubblica:
«Non siamo di fronte a un concorso ma a una scelta fiduciaria, anche se previo pubblico avviso. È quindi il ministro, che per altro si è avvalso dell’ausilio di una commissione di esperti internazionali, ad avere l’ultima parola nelle nomine dei direttori dei musei statali. Non molto diversamente da un’azienda che sceglie il suo manager. Gli aspiranti esclusi non possono pretendere di rimuovere quella nomina, ma al più chiedere eventuali danni solo in caso di condotta sleale di chi ha conferito l’incarico».
Il parere di Pellegrino è condiviso anche da altri giuristi. Daniele Donati, che insegna diritto amministrativo all’università di Bologna, al Fatto Quotidiano ha spiegato che il governo dovrebbe precisare meglio «qual è l’ambito di competenza della politica e qual è invece l’ambito di competenza di un tribunale amministrativo», ma che spesso il Tar «entra invece nel merito di scelte che dovrebbero essere proprie della politica» (Donati ha precisato di non voler entrare nel merito della sentenza di ieri).
Anche Sabino Cassese, uno dei più rispettati giuristi italiani, ha criticato la sentenza del Tar, aggiungendo che anche «il diritto europeo consente la nomina di cittadini stranieri come direttori di musei anche statali». Esiste anche un precedente preciso che viene citato in queste ore: nel 2011 il greco Iraklis Haralambidis fu nominato capo del porto di Brindisi. Un altro dei candidati aveva fatto ricorso contro la sua nomina più o meno sulle stesse basi dei ricorsi contro le nomine dei direttori dei suoi musei, ma il Consiglio di Stato gli ha dato torto sulla base delle «disposizioni sulla libertà di circolazione all’interno dell’Unione [Europea]».
Le altre questioni
Sono più tecniche, e riguardano sostanzialmente il colloquio orale e il punteggio assegnato ai candidati per accedere alla fase finale della selezione. Sulla prima, il Tar ha contestato che i colloqui orali della commissione non fossero aperti, soprattutto agli altri candidati (alcuni dei colloqui sono inoltre avvenuti su Skype, alla presenza dei soli membri della commissione). Sulla seconda, il Tar ha invece contestato la “magmatica riconduzione” del punteggio ottenuto da ciascun candidato a una specifica “classe” in cui veniva inserito prima del colloquio orale. In pratica, i candidati che fino a quel momento avevano ottenuto un punteggio da 15 a 20 (il massimo) venivano ammessi alla classe A, la più alta, i candidati che avevano ottenuto da 11 a 14 punti nella classe B, e così via. Secondo il Tar, queste “classi” erano inutili, dato che «il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni o chiarimenti».